Perché il general counsel non può essere il garante dell’etica aziendale

Dopo i grandi scandali americani Enron e WorldCom, le imprese hanno iniziato a capire che il loro interesse non poteva più essere solo quello di creare profitto, ma quello anche di prestare attenzione a come raggiungevano questo profitto. È da allora che si è innescato il cambio di paradigma. Le aziende hanno iniziato a dare pubblicamente dimostrazione del fatto che possono muoversi anche meglio sul mercato, se riescono a mantenere saldi dei valori forti. Diversi studi hanno dimostrato che abbracciare l’etica significa rafforzare il legame coi dipendenti e gli stakeholder, ma anche guadagnare la fiducia e le preferenze dei clienti/consumatori.

Tra i vari ruoli che negli anni sono stati affidati ai giuristi d’impresa, sempre più spesso c’è quello di garanti dell’etica aziendale. Questo perché, mediamente, il ragionamento è: chi meglio del giurista d’impresa, che tutti i giorni si trova a dire cosa si ha diritto di fare, è in grado di dire anche cosa è giusto fare? Ma etica e legalità d’impresa sono la stessa cosa? Non proprio. Non ci può essere etica senza legalità. Ma ci può essere legalità senza etica. Pensateci. Io posso rispettare la legge ma non necessariamente farlo in modo etico. Mentre, tendenzialmente, tutte le volte mi starò comportando in maniera etica, starò anche rispettando la legge.

Quindi, se era scontato che ai giuristi d’impresa venisse demandata la tutela della legalità aziendale, non lo era affatto che a loro sarebbe stato richiesto anche di fungere da garanti dell’etica aziendale… È giusto dunque che debbano essere loro a occuparsene?

Di questo si è parlato durante il convegno Etica e legalità d’impresa: il ruolo del giurista interno nell’esperienza italiana e angloamericana, organizzato dallo studio Delfino e Associati Willkie Farr & Gallagher, in collaborazione con AIGI e con il patrocinio della British Chamber of Commerce e della American Chambers of Commerce.

Senz’altro l’integrità è una delle caratteristiche fondamentali degli in house counsel, e lo dimostrano anche i codici etici delle associazioni di categoria. Per cui è corretto che il giurista oggi debba chiedersi, visto che l’etica ha assunto un ruolo cogente nelle aziende, non solo se è un determinato comportamento è legale, ma anche se è giusto. Come ha spiegato Raimondo Rinaldi, general counsel di Esso Italiana ed ex presidente AIGI. Tuttavia, un interrogativo rimane sul termine “garante”. Per essere garanti bisogna avere il potere di sostituirsi a chi non è adempiente a un obbligo. Quella del giurista d’impresa è una funzione di staff, che non ha poteri coercitivi e gerarchici sui colleghi dei dipartimenti commerciale e industriale, che sono tendenzialmente quelli che possono porre più a rischio l’etica aziendale.

Perché l’etica si diffonda davvero in azienda bisogna lavorare sulle singole persone, non limitarsi alla stesura di un codice etico, ma prevedere dei programmi effettivi, delle procedure e delle iniziative di formazione che consentono di trasfondere i principi e i valori etici dell’azienda nei comportamenti di ogni funzione.

Il giurista può certamente essere coinvolto in questo processo, ma deve essere riconosciuto, sia dai vertici che dai colleghi, per farlo. Secondo Rinaldi, può essere il portatore, l’alfiere, il diffusore; dando testimonianza quotidiana dei valori dell’impresa. Ma, comunque, non potrà mai essere il “garante” perché non potrà mai sostituirsi agli altri. Non potrà mai sostituirsi a ciascun individuo che dovrebbe sentire quei valori come parte di sé stesso.

Siete d’accordo anche voi?

 

 

Gennaro Di Vittorio

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