L’agenda politica e le aspettative dell’avvocatura

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di nicola di molfetta

L’alba della XIX legislatura ha anche tinte legali. L’avvocatura italiana, reduce dal suo XXXV Congresso celebrato a Lecce nei giorni scorsi, non molla la presa sulla politica e chiede che il governo non si dimentichi dei professionisti.

In cima alla lista delle priorità, a quanto pare, c’è l’equo compenso. Il Ddl relativo, che nel corso della precedente legislatura ha mancato di tagliare il traguardo per un soffio a causa del prematuro scioglimento delle Camere, dovrebbe essere, negli auspici degli avvocati italiani, il punto di partenza (e di arrivo) di una riforma che la crisi ha reso, a detta di tanti, indispensabile. Si tratta di un provvedimento che cerca di proteggere la categoria dalle “storture” del mercato (come quel rompicapo impossibile fatto di domanda e offerta) rispetto alle quali gli avvocati, storicamente, faticano a trovare una quadra e sentono il bisogno di protezione.

Ma c’è un tema che è emerso a Lecce, e che sembra decisamente più meritevole di attenzione. Si tratta della regolamentazione dell’esercizio della professione in forma aggregata. Sono state ben quattro le mozioni discusse durante il Congresso salentino che hanno affrontato il tema delle reti d’impresa e del loro utilizzo da parte degli avvocati.

Al di là del contenuto delle singole istanze, questa attenzione alla possibilità di individuare una strada “semplificata” alla creazione di alleanze tra avvocati (per aumentare il raggio dell’offerta di servizi; l’integrazione delle competenze; e la capacità di presidio territoriale) dice una cosa importante riguardo al processo evolutivo che la categoria sta affrontando in quest’epoca di profondi cambiamenti. La professione in solitaria si sta rivelando sempre più ardua da sostenere. La necessità di fare squadra con altri colleghi si sta rivelando una strada obbligata per uscire dalle secche di una crisi che non marginalizza gli avvocati tout court ma solo quella fetta di popolazione forense che si è tenuta volontariamente lontana dalle nuove dinamiche che regolano i rapporti tra chi compra e chi vende servizi legali.

E qui, se mi è consentito, torno sull’equo compenso. Chiediamoci quando e perché il ricorso a un obbligo di legge di questo tipo si renderà necessario. Perché se esso servirà solo a tenere alti i prezzi di attività ormai considerate commodity da parte dei grandi committenti di servizi legali, allora temo che contribuirà esclusivamente a rendere (ulteriormente) invisa la professione e i suoi esercenti agli occhi della società civile e degli operatori economici che, con le regole di mercato, si devono misurare ogni giorno e senza rete.
Se, invece, l’equo compenso verrà usato come grimaldello contro gli abusi dei “clienti forti” sempre più inclini a far pesare il loro potere contrattuale nella negoziazione delle retribuzioni professionali, allora potrà esercitare una funzione utile a tutela della categoria (ovvero della sua componente più fragile) che, comunque, dovrà cominciare seriamente a pensare come uscire da questa condizione di debolezza nei rapporti con la committenza. Come fare per essere percepita sempre più come asset da valorizzare e non semplicemente come costo da contenere.

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