Così hanno fatto fuori Lidia Poët
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Quando Lidia Poët fu esclusa dalla professione forense, nel 1883, i giudici della Corte di Cassazione di Torino dovettero darsi un bel da fare per trovare motivazioni che giustificassero la loro decisione, dimostrandosi peraltro incredibilmente creativi.
Poët aveva fatto tutto secondo le regole per guadagnarsi l’abilitazione alla professione, compresa la laurea a Torino nel 1881 con una tesi sul diritto di voto delle donne ed esami superati brillantemente. Eppure, nonostante l’iniziale benestare del Consiglio dell’Ordine torinese, il suo ingresso nella professione scatenò un’accesa controversia e i suoi meriti non bastarono a superare quello che, per l’epoca, era percepito come un problema insormontabile: era una donna.
Come emerge dalla ricerca “When legal interpretation is not about Language. The curious case of Lidia Poët” firmata da Roberto Isibor, associate di Hogan Lovells e lecturer in Bocconi, e Bojan Spaić, docente dell’Università di Belgrado, il tribunale costruì la propria opposizione su tre pilastri argomentativi. Prima di tutto, ci si aggrappò alla linguistica: nei testi di legge c’era scritto “avvocato”, declinato unicamente al maschile, dimostrazione, secondo i giudici, che le donne fossero automaticamente escluse dall’esercizio della professione. Si tirò poi in ballo l’idea che l’avvocatura fosse un ufficio pubblico dal quale le donne erano escluse per legge. E, per non farsi mancare nulla, l’ultima argomentazione faceva riferimento alle “caratteristiche naturali” che rendevano le donne poco adatte alla professione legale. D’altronde, recitava la sentenza sull’annullamento dell’iscrizione di Lidia all’albo degli avvocati, “nella razza umana esistono diversità e disuguaglianze naturali […] e dunque non si può chiedere al legislatore di rimuovere anche le differenze naturali insite nel genere umano”. È quindi “inopportuno che la donna converga nello strepitio dei pubblici giudizi”, magari discutendo di argomenti imbarazzanti per “fanciulle oneste”.
Le argomentazioni della Corte di Torino oggi ci fanno sorridere, ma di un sorriso amaro. Come ci ricorda Francesca Lauro, counsel di Hogan Lovells, per quanto le cose siano cambiate enormemente, la donna avvocata è ancora oggi sottoposta a una serie di pregiudizi solo sulla base del genere che rappresenta. Ne parla con me in quest’ultimo episodio di Diverso sarà lei insieme a Roberto Isibor, collega di studio e autore del paper. Buon ascolto a tutti!