Cerved: ecco perché le imprese devono intervenire sul clima

La destabilizzazione del quadro internazionale e lo shock energetico hanno ridimensionato le aspettative di ripresa economica, che si avviavano a superare i livelli pre-Covid grazie al forte rimbalzo del 2021, e invertito di nuovo il trend, con un conseguente aumento della rischiosità delle PMI nel biennio 2022-23 e un calo del fatturato.

In base al Cerved Group Score Forward Looking, l’indice di rischio prospettico di Cerved, nello scenario peggiore – escalation del conflitto russo-ucraino, blocco delle forniture di gas, mancata implementazione del PNRR – le PMI in area di sicurezza si ridurrebbero infatti dall’attuale 46,7% al 35,7% mentre quelle rischiose salirebbero dal 5,7% al 7,5% e quelle vulnerabili dal 13,9% al 20,8%. Quanto ai fatturati, nello scenario più pessimista si contrarrebbero in media dell’1% (-2,4% il MOL), generando nel 2023 una dinamica recessiva (-1%) causata dalla riduzione dei consumi (-0,6%) e dalla stagnazione di investimenti (+1,6%) ed export (+1,9%), con effetti molto più pronunciati nei settori ad alta dipendenza dal gas e dall’energia.

Sono alcuni dei dati contenuti nel Rapporto Cerved PMI 2022, lo strumento di analisi della condizione economico-finanziaria delle piccole e medie imprese italiane (ne esamina 160.000) che da ben 9 anni Cerved mette a disposizione di mercato e istituzioni. Proprio i continui ribaltamenti di scenario, però, devono indurre a un approccio multidimensionale al rischio: le pur gravi difficoltà contingenti non devono fare allentare la presa sulla vera sfida dei prossimi decenni, cioè la gestione della transizione verso un’economia sostenibile per scongiurare eventi estremi che rappresentano una seria minaccia anche a livello sociale e finanziario. Un dato su tutti: chi non adotterà provvedimenti per mitigare i rischi fisici legati ai cambiamenti climatici avrà nel 2050 il 25% in più di probabilità di default rispetto a oggi, e il 44% in più di chi invece investe fin da ora. Non solo: per le imprese ad alto rischio fisico (oltre l’8%) si prospetta al 2050 una quota di costi annui per la ricostruzione pari all’1,6% dell’attivo e un aumento dei premi assicurativi fino al 3% del fatturato.  

“Complessivamente, l’investimento che le PMI dovrebbero sostenere per finanziare fin da ora il processo di transizione è di circa 135 miliardi di euro entro il 2030 (cioè il 47% dello stock delle immobilizzazioni materiali dichiarato nel 2020 e il 12,8% dell’attivo) – commenta Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved -, per il 79,7% a carico dell’industria (circa 109 miliardi), per l’8% dei servizi (quasi 11 miliardi) e il resto diviso tra costruzioni (4,3%, quasi 6 miliardi), commercio (4,1%, 5,6 miliardi), trasporti e public utilities (3,5%,  quasi 4,8 miliardi) e agricoltura (0,4%, 570 milioni). Abbiamo stimato, però, che l’indebitamento aggiuntivo in condizioni di sicurezza delle PMI italiane sia di circa 81 miliardi di euro, quindi oltre la metà degli investimenti necessari potrebbe essere finanziata con un aumento dell’indebitamento senza un impatto significativo sulla solidità finanziaria: una sfida che le imprese, con il supporto intelligente del sistema bancario, sono ampiamente in grado di affrontare”.

“Oggi è fondamentale muovere lo sguardo lontano per connettere le logiche del presente alle sfide di lungo periodo – prosegue Mignanelli -. Una transizione ‘ordinata’, nonostante gli alti costi nel breve termine, rappresenta la scelta migliore anche considerando gli andamenti economici e le prospettive di rischio, ma richiede la partecipazione attiva di tutti gli attori: il sistema politico, per la definizione di obiettivi chiari e di una strategia coerente per perseguirli; il sistema produttivo, per l’adeguamento tempestivo dei loro modelli operativi; il sistema bancario, per cogliere con consapevolezza i rischi ma soprattutto le opportunità che derivano dalla transizione. Noi di Cerved siamo già in campo per accompagnare il Sistema Paese in questa grande trasformazione con le nostre tecnologie, i nostri algoritmi e nostri modelli decisionali”.

ll Climate Stress Test sulle PMI

Sulla scorta di quanto fatto dalla BCE, che ha invitato le principali banche europee a condurre il primo esercizio di Climate Stress Test per valutare la resilienza delle aziende e delle banche stesse ai rischi climatici, Cerved ha condotto un analogo esercizio di Climate Stress Test sulla popolazione di PMI italiane, integrando gli input forniti dalla BCE con score, modelli e algoritmi di simulazione e proiettando al 2050 i bilanci individuali delle imprese, di cui sono state stimate variabili chiave come emissioni, consumi energetici, esposizione al rischio fisico. Tre gli scenari a confronto: la transizione “ordinata” (orderly), che procede in modo regolare verso il raggiungimento degli obiettivi di Parigi, concentrando i maggiori investimenti nel decennio 2020-2030; quella “disordinata” (disorderly), in cui gli interventi vengono attuati solo nel biennio 2030-2040, con costi più elevati nel medio termine; infine lo scenario “serra” (hot house), in cui si interviene in maniera insufficiente, con un conseguente aumento della frequenza e della severità degli eventi fisici.

Più nel dettaglio, partendo dalle emissioni, nello scenario ordinato calerebbero rapidamente già nel primo decennio e l’introduzione di una Carbon Tax renderebbe conveniente la realizzazione di forti investimenti per ridurre l’impatto ambientale dei processi produttivi, mentre in quello disordinato le emissioni diminuirebbero solo dal 2040.

Anche nella composizione dell’energy mix (le PMI, secondo le stime di Cerved, nel 2020 hanno speso circa 8 miliardi di euro in energia) si verificherebbe una dinamica simile: nel 2030 le fonti non rinnovabili (carbone, gas e petrolio) rappresenterebbero il 61,7% del mix energetico nello scenario ordinato, contro il 75,2% degli altri due, poi però il divario tra transizione ordinata e disordinata diminuirebbe e l’introduzione massiva di energia da fonti rinnovabili ne ridurrebbe significativamente l’incidenza sul fatturato. Al contrario, nello scenario “serra” la quota delle non rinnovabili rimarrebbe al 65% anche nel 2050.

La componente del rischio fisico

È la componente del rischio fisico, però, a fare la differenza, perché determina maggiormente la probabilità di default (PD) delle PMI italiane, che anche per la conformazione naturale della nostra penisola si collocano per oltre l’8% nella fascia di rischio fisico alto o molto alto e per il 30% nella fascia di rischio medio. Emerge infatti come gli investimenti portino nel lungo periodo a una riduzione della probabilità di default mediana nei due scenari con transizione, che è invece in crescita dal 2030 nello scenario “serra”, quando l’impatto dei rischi fisici si fa più evidente: +25% di rischiosità rispetto a oggi e +44% rispetto allo scenario ordinato.

Ma non solo: sono stati considerati, da un lato, la necessità di maggiori investimenti per la ricostruzione di impianti, capannoni, magazzini colpiti da frane o da alluvioni, strettamente legate all’innalzamento della temperatura, dall’altro la crescita dei premi assicurativi richiesti dalle compagnie per coprire, almeno in parte, i danni. Negli scenari ordinato e disordinato, la frequenza degli eventi negativi aumenta solo marginalmente e il costo degli investimenti per la ricostruzione raggiunge al massimo lo 0,1% dell’attivo per le PMI ad alto rischio nel 2050, e anche il premio assicurativo incide per l’1,1% del fatturato. Nello scenario “serra”, invece, per le imprese ad alto rischio fisico si prospetta al 2050 una quota di investimenti annui per la ricostruzione pari all’1,6% dell’attivo e un aumento dei premi assicurativi fino al 3% del fatturato.

L’impatto della nuova congiuntura sulle PMI, per settori: rischiosità, fatturato, imprese “zombie”

Come detto, il nuovo ribaltamento di scenario dovuto allo scatenarsi della guerra russo-ucraina e allo shock energetico ha peggiorato un quadro che sembrava destinato a lasciarsi alle spalle le crisi da Covid. Analizzando il rischio di default per macrosettori, nello scenario peggiore si nota che nell’industria e nei servizi le quote di imprese in area di sicurezza calano rispettivamente di 13,8 e 11,6 punti percentuali (da 58,7% a 44,9% e da 45,4% a 33,8%). È l’industria a registrare il maggior numero di aziende che entrano in area di rischio (+5,1% se si considerano i debiti finanziari), mentre nei servizi crescono quelle in area di vulnerabilità (+8,5%, e +12,8% considerando i debiti finanziari). Particolarmente contenuto è invece l’impatto per il settore delle costruzioni.

Quanto ai fatturati reali, nel prossimo biennio seguiranno traiettorie diversificate nei due scenari. Mentre, nell’ipotesi più pessimistica, nel 2023 saranno in calo (-1% di media) in tutti i settori ad eccezione delle costruzioni, così come diminuirà il Mol (-2,4%), in quello moderato – in cui gli elementi di crisi di questi mesi non si spingono alle estreme conseguenze – i fatturati reali continueranno a salire anche nel 2023, seppur con una decelerazione. Il settore con la maggiore crescita stimata, cumulata nel biennio 2022-2023, è quello agricolo (+6,7%), seguito da costruzioni (+4,7%) e servizi (+4,5%). L’industria si ferma a +2,5%.

Un altro effetto del peggioramento della congiuntura è il riacutizzarsi del divario tra le imprese “zombie”, cioè non in grado di operare secondo le normali condizioni di mercato, e il resto del sistema di PMI. Al momento ne risultano attive 13.851 (3.759 in più rispetto al 2021, quando invece erano calate di 6.708 unità), in particolare nei servizi e dell’industria. I dati del primo semestre 2022 mettono in evidenza che le incidenze di gravi ritardi nei pagamenti e le quote di rischio sono molto più elevate tra le imprese zombie, con un divario in crescita rispetto al 2020-21: esse infatti pagano in media 10 giorni dopo i termini concordati, contro i 6,8 giorni del resto delle PMI, e la quota di gravi ritardi si attesta sul 4,5%, contro il 2,8% delle aziende sane.

Le previsioni di Cerved fanno emergere trend fortemente eterogenei che risentono soprattutto della diversa esposizione allo shock energetico, ma che non risparmiano nessuna dimensione aziendale. Sulla base di uno schema recentemente introdotto dalla BCE, le PMI sono state suddivise in tre gruppi, tra cui quelle che subirebbero in modo diretto (11.000) e indiretto (71.000) un eventuale stop delle forniture di gas russo e per cui sono previsti trend di redditività lorda e ROE nettamente inferiori rispetto alle altre. Gli impatti maggiori ricadrebbero soprattutto sui settori legati a produzione e lavorazione dei metalli e dei materiali per l’edilizia, o della carta, per il grande volume di energia impiegato nei processi produttivi.
Tra le aziende a impatto diretto la quota che chiuderebbe in perdita raddoppia dopo un anno (da 26,3% a 54,8%), mentre passa dal 26,3% a 45,8% in quelle a impatto indiretto; nelle restanti PMI, invece, l’aumento è di soli 6 punti percentuali (da 29,5% a 35,6%). Il numero di imprese che potrebbero incorrere in problemi di liquidità in seguito allo stop delle forniture si attesta al 24,8% per quelle a impatto diretto, al 19,5% per quelle a impatto indiretto e al 15,3% per le altre.

La rapida ripresa delle PMI dagli effetti della pandemia

Il 2021 è stato un anno di ripresa vigorosa dopo la crisi causata dal Covid, con una crescita superiore alle aspettative: i bilanci hanno mostrato cifre in netto recupero per tutti gli indicatori del conto economico, spesso su valori addirittura migliori rispetto al 2019, e risultati importanti sono stati raggiunti anche sui tempi e la regolarità dei pagamenti, sui saldi demografici e sul fronte del rischio di credito, che ha registrato un miglioramento complessivo della solidità e della solvibilità delle imprese, anche grazie al sostegno tempestivo del governo e delle istituzioni europee.

Dopo la flessione del 2020 (-1,8%), le PMI attive nel 2021 aumentano del 4,2% (163.349 contro le 159.925 del 2019). I fatturati, calati dell’8,2% nel 2020, crescono del 14,5%, portandosi a +5,1% rispetto al 2019, trainati dalle medie imprese, e il margine operativo lordo registra numeri da record: +23,7% sul 2020 e +13% rispetto al pre-Covid. A guidare la dinamica di crescita sono le ottime performance di industria (+16,4% rispetto al 2020) e soprattutto costruzioni (+17,9%), entrambi stimolati dai numerosi incentivi messi a disposizione dal governo. Il trend di ripresa delle PMI è certificato anche dalle abitudini di pagamento e dagli score di rischio. Nonostante scadenze più rigide, calano i giorni di ritardo nei pagamenti ai fornitori, così come diminuiscono i mancati pagamenti: le PMI solvibili aumentano rispetto a prima della pandemia e tuttavia crescono anche le imprese rischiose. Ciononostante, calano le chiusure, grazie alle garanzie pubbliche e alle moratorie che hanno consentito la sopravvivenza di PMI con una struttura finanziaria molto fragile.

michela.cannovale@lcpublishinggroup.com

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