Benessere is the new black

Nell’ultima settimana abbiamo ripreso su inhousecommunity.it un paio di notizie che parlano di benessere a lavoro. E non rappresentano certamente un caso isolato. Il benessere a lavoro sta diventando la frenesia dei nostri tempi. Aziende, studi legali e società di consulenza si sentono investite anche di questa “responsabilità” di occuparsi del benessere delle proprie risorse. Un po’ per la svolta etica delle aziende e un po’ per ragioni di interesse aziendale. Diversi studi hanno dimostrato che accertarsi che i propri collaboratori stiano bene a lavoro significa infatti riuscire a trattenere i talenti, ad aumentare la produttività delle persone ed evitare fenomeni di assenteismo o dimissioni, per citare solo alcuni dei benefici.

Per carità… si tratta di iniziative sicuramente lodevoli. Ma da risorsa interna, mi chiedo se davvero abbiamo bisogno che sia il nostro datore di lavoro a preoccuparsi del nostro benessere. In tutta onestà. Pensiamoci un momento. È davvero una cosa che vogliamo demandare all’azienda? Siamo sicuri di non volercene occupare in autonomia? Anche perché, sinceramente, sono davvero delle attenzioni su questi argomenti a farci stare bene in azienda, a farci sentire apprezzati, stimati e valorizzati?

Oppure lo sono ancora le opportunità di crescita che l’azienda è in grado di offrirci, il rispetto del nostro tempo libero (e attenzione dico “nostro”, non organizzato da terzi)… e da donna aggiungo la certezza che ci troviamo in un contesto dove c’è garanzia che veniamo trattati alla pari dei nostri colleghi uomini. Una cosa che, del resto, è valida per chiunque si trovi in una condizione minoritaria o di diversità.

E il benessere? È “cosa” nostra. Anche perché, in azienda o in studio, c’è il rischio che si trasformi nell’ennesima casella da spuntare e che come accade in questi casi diventi controproducente per tutti.

 

 

Gennaro Di Vittorio

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