Tra indignazione e necessità: general counsel divisi sugli accordi tra studi legali e Trump
Nonostante il malcontento, la complessità delle pratiche impedisce ai responsabili legali di interrompere i rapporti con gli studi coinvolti. Ma in Europa le cose potrebbero andare diversamente…
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Da quando diverse law firm – tra cui Kirkland & Ellis, Latham & Watkins, Skadden Arps, Milbank, Willkie Farr & Gallagher e A&O Shearman – hanno stretto accordi transattivi con l’amministrazione Trump (sul piede di guerra contro le politiche DE&I, si veda il numero 226 di MAG), anche il mondo dei giuristi d’impresa ha cominciato a interrogarsi sulla tenuta dell’indipendenza e dell’integrità della professione legale.
Gli accordi in questione prevedono che gli studi si impegnino a fornire centinaia di milioni di dollari in servizi legali pro bono per evitare sanzioni governative e garantire la continuità di contratti e delle autorizzazioni strategiche. Una dinamica che ha sollevato interrogativi tra i general counsel delle aziende americane, che si trovano ora a dover bilanciare il loro malcontento con la necessità di portare a termine pratiche complesse senza rischiare costi o ritardi.
Come riportato da Law.com, molti responsabili legali in house si sono dichiarati contrari alle intese firmate con la Casa Bianca, considerandole un segnale preoccupante per l’indipendenza e la credibilità della professione. Sandra Leung, ex numero 1 del dipartimento legale di Bristol Myers Squibb, invitata come ospite a una puntata del podcast Original Jurisdiction di David Lat, parlando del presidente americano, ha affermato che «quando un bullo ti attacca, devi reagire. Se accetti compromessi ingiusti, continui a subire e non c’è mai fine».
Leung non è la sola a pensarla così. Eppure, nonostante la contrarietà espressa, la maggior parte dei general counsel ha deciso finora di non interrompere i rapporti con gli studi coinvolti. Le ragioni sono semplici (e molto pratiche): sostituire uno studio legale in corso d’opera comporterebbe costi elevati, ritardi e rischi operativi significativi, soprattutto in contesti di contenziosi complessi o attività societarie delicate.
Scott Chaplin, che in passato ha lavorato nelle direzioni legali di sette diverse aziende e ha poi deciso di fondare la società di consulenza BreakPoint Strategy, dove si trova attualmente, ha spiegato che molti responsabili legali condividono questa stessa posizione. «Non ho ancora avuto modo di osservare particolari cambi di rotta da parte dei general counsel delle aziende: nessuno è effettivamente disposto a rompere o compromettere un rapporto consolidato con un avvocato. Dicono: “Non sono contento di quello che sta succedendo con quello studio. D’altronde, collaboro con loro da troppi anni… Ma ho già pensato che potrei escluderli dai prossimi beauty contest, così evito di tagliare i rapporti in questo momento”», ha riportato, interpellato da Law.com.
Insomma, a guardarlo da qui, il mondo legale statunitense sembra oscillare tra l’indignazione e il pragmatismo. Alla fine, però, le esigenze aziendali e i vincoli pratici prevalgono quasi sempre. L’indipendenza legale è sì percepita come un valore importante, ma nella maggior parte dei casi solo a parole, solo da pochi (a tal proposito, nella nostra monografia di questo mese parliamo del caso Rachel Cohen, l’avvocata che ha lasciato Skadden dopo che la firm ha firmato l’accordo con la Casa Bianca).
La situazione in Europa
E in Europa? La questione pare aver assunto una connotazione più radicale. La German Bar Association (Deutscher Anwaltverein – DAV), per esempio, ha pubblicato un documento di 11 pagine in cui sottolinea esplicitamente il dovere degli avvocati di mantenere l’indipendenza professionale dalla politica e di evitare accordi che possano comprometterla. Il riferimento, in particolare, è all’articolo 1 del Federal Code for Lawyers (Bundesrechtsanwaltsordnung – BRAO), che impone a chi pratica la professione di non stringere legami contrattuali o patti che possano minare la loro libertà di agire esclusivamente nell’interesse del cliente. Secondo la DAV, gli accordi sottoscritti dagli studi statunitensi – soprattutto da quelli che operano in Germania, come Skadden, Kirkland & Ellis e Latham & Watkins – potrebbero violare questo principio, dando l’impressione di una funzione, quella del legale, “asservita al potere politico”.
Un richiamo che non è solo formale, ma affonda le sue radici nella storia tedesca e nella memoria del Novecento. A questo riguardo, Clarissa Freundorfer, legal counsel in Deutsche Bahn, ha detto a Law.com di essere rimasta «scioccata» quando ha saputo degli accordi delle law firm con Washington, menzionando il rischio di una nuova “Gleichschaltung”, il processo di allineamento forzato delle istituzioni al regime.
Anche in Olanda, la Netherlands Bar Association (Nova) ha espresso preoccupazioni simili, sollevando dubbi sulla compatibilità degli accordi con le regole di indipendenza e deontologia.
Se queste posizioni si consolidassero, gli studi legali coinvolti potrebbero subire sanzioni disciplinari, oltre a limitazioni operative e un grave danno reputazionale nel mercato europeo.
Indipendenza o prudenza?
E quindi? Dove negli Stati Uniti prevale la prudenza, in Europa potrebbe affermarsi una nuova cultura della responsabilità e dell’autonomia legale. Le vicende statunitensi fanno emergere un nodo che va ben oltre le aule dei tribunali: quale strada sceglierà il mercato legale internazionale? Prevarrà un approccio pragmatico, in cui l’interesse economico e la continuità operativa pesano più dell’etica professionale? Oppure emergerà un nuovo paradigma, in cui l’indipendenza legale sarà riaffermata come valore imprescindibile?
In gioco c’è non solo l’evoluzione delle grandi law firm, ma anche il ruolo stesso della professione legale come baluardo dello stato di diritto. L’Europa è pronta a tracciare una linea di demarcazione netta con il mondo americano, difendendo l’integrità della professione? O invece, di fronte a pressioni economiche e politiche, preferirà cedere alla prudenza? Il futuro del diritto potrebbe dipendere dalla risposta a queste domande.
Proprio in questo scenario i giuristi d’impresa del Vecchio Continente rivestono un ruolo cruciale. Oggi più che mai, soprattutto quando operano a livello internazionale, i general counsel sono attori strategici nelle aziende, capaci di orientarne le scelte non solo operative ma anche etiche e reputazionali. La loro influenza non si limita alla gestione delle pratiche legali: con il loro posizionamento e la loro visione globale, possono guidare le imprese verso scelte più consapevoli e responsabili, anche nei rapporti con gli studi legali esterni. E le decisioni che prenderanno nei prossimi mesi saranno determinanti per tracciare i confini dell’indipendenza legale e per riaffermare la centralità dell’etica nella professione.
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