Quotate, le ad donna non superano i Carlo
di ilaria iaquinta
A rivelarlo è la ricerca “L’importanza di chiamarsi Carlo” condotta da SkyTg24 e presentata in TV lo scorso 23 ottobre insieme all’associazione Valore D. Lo studio calca il nome di report simili realizzati in altri Paesi e che hanno evidenziato la scarsità delle donne nelle posizioni apicali delle maggiori imprese. Negli Usa ad esempio è più probabile trovarsi davanti a un ceo dal nome John che donna. Stessa cosa in Regno Unito con gli ad che si chiamano Peter. Ed è così anche in Italia per gli “Alessandro”, che tra il campione delle aziende analizzate sono otto (Fig. 1).
Le cose non vanno meglio se si restringe lo sguardo dalle 100 alle prime 50 big di Piazza Affari: le ad in questo caso solo due. Il 4% del totale. Se dal 2011 a oggi la legge Golfo-Mosca – rinnovata a inizio 2020 per altri sei mandati con nuove previsioni (la quota riservata al genere meno rappresentato passa da un terzo a due quinti degli organi di amministrazione e controllo) – ha portato a un aumento deciso del numero di donne nei consigli di amministrazione, nei ruoli apicali il timone rimane stabilmente in mano agli uomini. Se infatti la fetta di donne nei cda nel 2018 è pari a circa il 36% contro l’8% del 2008, le ad sono rispettivamente il 5,8% nel 2018 e il 5% nel 2008 (rilevazioni Consob – Fig. 2).
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