“Per salvaguardare la reputazione delle aziende italiane bisogna puntare sulla compliance”
Se ami la velocità, se vuoi capire dove andrà il mercato e se vuoi vedere cose che lavorando in uno studio legale potresti conoscere solo dopo 10 anni di attività, allora il lavoro giusto per te è quello del legale in house in una grande azienda. Ne è convinto Lorenzo Maria Di Vecchio (nella foto), avvocato romano che da quattro mesi è il nuovo Responsabile Compliance Global di Fendi. A volerlo nella casa di moda romana è stato il general counsel Sergio Marini che con Di Vecchio condivide la provenienza da un’industry lontana da quella di Fendi.
Il motivo della scelta? “Negli ultimi anni i grandi brand di moda – spiega Di Vecchio – hanno deciso di strutturare in maniera più eterogenea i propri dipartimenti in house, e per farlo si sono rivolti a legali con esperienza in grandi multinazionali di differenti settori, dove questo processo era già stato avviato da molti anni”. Nel caso di Marini l’ industry di provenienza è il settore energetico, nello specifico, il colosso energetico Shell. Di Vecchio arriva invece da una multinazionale del largo consumo come Colgate-Palmolive e da una precedente esperienza di 4 anni in Heineken.
“Sia in Heineken che, soprattutto, in Colgate-Palmolive – ricorda l’avvocato – ho lavorato molto sulla corporate social responsibility e sulla compliance. Due temi che sono diventati molto importanti negli ultimi anni anche nelle grandi case di moda e che hanno perciò reso la mia precedente esperienza lavorativa molto spendibile anche in una industry così diversa”. E di social responsibility, a guardare i recenti fatti di cronaca – dalle piume di Moncler ai coccodrilli di Hermes –, il mondo della moda sembrerebbe avere un disperato bisogno.
Come lavora il dipartimento legale di Fendi per presidiare questo aspetto?
Bisogna precisare che il problema, dal punto di vista della corporate social responsibility, non è la moda in quanto tale ma il fatto che questa industry si avvale di moltissimi fornitori, non sempre del tutto controllabili. Ed è proprio a quel livello che bisogna lavorare. Noi facciamo di tutto per aumentare il loro coinvolgimento. Per esempio, già da tempo, Fendi ha previsto dei training specifici per loro e anche degli audit periodici per verificare la loro compliance. Oggi stiamo, inoltre, lavorando unitamente ad altri dipartimenti dell’azienda, con un team interdisciplinare, per stabilire e imporre degli standard minimi che dovranno essere rispettati da chiunque lavori per Fendi in ogni parte del mondo.
Quanta responsabilità ha un legal counsel rispetto alla salvaguardia della reputation aziendale?
Il problema è che in molti casi il legale in house, pur avendo la responsabilità formale, non viene in realtà coinvolto in certe decisioni. Penso, ad esempio, al giurista d’impresa che trascorre le giornate chiuso nel proprio ufficio a redigere contratti.
Come può rendersi conto di quello che avviene fuori a livello dei singoli fornitori? Qual è allora la soluzione?
L’unico modo è che il legale in house entri fisicamente nelle fabbriche e in tutti i dipartimenti aziendali per vedere con i suoi occhi come funzionano le cose e verificarne il livello di compliance. Purtroppo però in molte aziende il giurista d’impresa viene ancora visto come uno scocciatore da cui bisogna solo ottenere l’ok. L’idea spesso ricorrente è “meglio non coinvolgerlo troppo altrimenti troverà altri problemi che limitano o rallentano il business”. Ma non c’è pensiero più sbagliato. Dovrebbe infatti affermarsi dovunque l’idea che il legale in house, ancor più se dedicato alla compliance è al 100% il partner dell’industria e del suo business. Tenergli nascoste le cose non serve a niente, se non a peggiorare la situazione quando i problemi verranno poi, inevitabilmente, a galla.
Anche perché, come abbiamo recentemente visto con il caso Volkswagen, il risultato può essere davvero disastroso…
Esatto. Anche perché la moda è per il nostro Paese quello che il settore automobilistico è per la Germania: l’industria che rappresenta l’eccellenza del Paese e su cui si gioca anche la sua reputazione agli occhi del resto del mondo. La vera posta in gioco non è infatti il rischio di multe – anche molto salate – quanto più la credibilità di una nazione intera.
Quanto conta il rispetto della compliance per evitare situazioni come questa?
Molto. Non a caso sono sempre di più le aziende che, negli ultimi 5 anni, hanno deciso di rafforzare la compliance, nominando un responsabile ad hoc o, persino, separando questa funzione dagli affari legali.
Qual è il senso di queste operazioni?
Le aziende hanno finalmente capito che lavorare molto a livello di compliance significa prevenire problemi futuri. Evitando così anche di doversi rivolgere a costosi consulenti esterni quando il danno è ormai già stato fatto.
Prima facevamo l’esempio del legale in house chiuso nel proprio ufficio. Un giurista d’impresa come questo, viene da pensare, non ha un grande peso nelle decisioni di business. Colpa sua o dell’azienda che non dà la giusta attenzione alla funzione legale?
Secondo me negli ultimi anni la professione in house ha fatto passi da gigante e questo anche perché le aziende si sono rese davvero conto dell’importanza di questa funzione. Il passaggio ulteriore è stata la creazione di figure dedicate specificatamente alla compliance. Se però un legal counsel non viene coinvolto nelle decisioni aziendali a tutti i livelli, secondo me, la colpa è anche un po’ sua.
Nel senso che difetta di leadership?
Esatto. Ogni legale in house, sia esso un junior o un general counsel, deve essere un leader. Non è possibile lavorare in azienda se manca questa qualità. In caso contrario, il rischio è quello di essere visto come un burocrate e non come un uomo di business che deve invece, in virtù delle sue doti manageriali e delle sue esperienze, affiancare l’azienda in ogni decisione.