Come parlare di politica in azienda

di Ricardo Cortés-Monroy

Non avete la sensazione che la politica sia onnipresente? Che il riflesso politico abbia invaso tutto e sia ovunque? Pochi argomenti possono essere discussi senza che qualcuno intorno a te li guardi attraverso un prisma ideologico, a tratti pure fazioso. Ovviamente le cose diventano complesse e delicate sul posto di lavoro. Soprattutto, direi, in un ufficio legale. Dopotutto, noi avvocati dobbiamo per essere interessati ed esperti di politica, o no? Nel 1985 alla facoltà di giurisprudenza in Cile, ho adorato le lezioni di diritto pubblico e costituzionale. E con alcuni amici abbiamo fondato il partito di centrodestra Renovación Nacional (al momento parte della coalizione di governo in Cile). Il mio primo lavoro è stato presso uno studio legale che contava non meno di 20 ex ministri, giudici d’appello e giuristi di diritto internazionale. Vivevamo in tempi politici turbolenti, sotto il regime di Pinochet. Eppure non abbiamo mai avuto una brutta discussione né un litigio. È stato straordinario come siamo sempre riusciti a portare prospettive diverse e cercare il consenso. Mettevamo prima la politica rispetto agli ideali, la sostanza davanti la partigianeria.

Oggi questo sembra impossibile. Di sicuro, la maggior parte delle aziende ha codici di condotta impeccabili che regolano la questione (sono sarcastico, ovviamente). Come general counsel, soprattutto in un ambiente internazionale, bisognerebbe accogliere con favore una discussione politica. Mi piacerebbe discuterne, provocare. Ma ovviamente, la parte più difficile è quella di rendere il tutto un esercizio costruttivo. Evitare l’argomento non ha senso e porta a situazioni sciocche come quella a cui ho assistito un paio di anni fa in Spagna: il codice di condotta purista dell’azienda vietava di parlare di politica. Quindi, immaginate la sorpresa del quartier generale super neutrale quando uno dei dirigenti è apparso sui media a sostegno dell’indipendenza catalana. Naturalmente, si è detto che si trattava di “una questione privata”. Veramente? (e lo scompiglio interno che ha provocato nell’azienda già risponderebbe alla mia domanda retorica). Magari fosse così facile in un dibattito pubblico così influenzato dai social media come quello di oggi.

Piuttosto che nascondere la testa sotto la sabbia, rimango sempre un fermo sostenitore di una discussione ponderata. Questo richiede, soprattutto da parte dei leader, una mano ferma in modo che le discussioni siano costruttive, apartitiche, civiche ed educate. Così le possibilità di avere una sorpresa diminuiscono in modo significativo. È molto più facile “mostrare” (piuttosto che “dire”) cosa è accettabile e quali sono, invece, comportamenti inaccettabili.

In molte aziende, il top management guarda (o almeno dovrebbe) sempre al General Counsel e al Head of Public Affairs per la guida politica, in particolare in merito ai colleghi stranieri in arrivo che sanno poco sui dettagli della politica locale. I consulenti esterni possono certamente aiutare ma non delegate loro il compito.

Per quanto riguarda il team legale, credo che discutere di politica e del suo impatto sull’attività della tua azienda e dei tuoi clienti sia un must. Non solo ci sarà così occasione di pensare collettivamente e in creativo come una squadra, ma ci si potrà concentrare sull’anticipare i problemi, su come contribuire a dar forma alla regolamentazione (direttamente o attraverso le associazioni di settore) e sul promuovere ulteriormente un’agenda di partecipazione civica all’interno del team.

Certo, ci sono alcune questioni da affrontare. Partigianeria e opinioni polarizzate potrebbero facilmente spuntare fuori in alcune discussioni. È qui che, come general counsel, devi mostrare la tua leadership guidando la discussione e mantenendola corretta. Così, il tuo team dovrebbe capire i limiti abbastanza velocemente.

Nella Repubblica Romana e nel Primo Impero/Principato, i cittadini interessati alla res publica avevano bisogno, per definizione, di essere formati in difesa, retorica e seguire il cursus honorum. Non aveva senso, o meglio era un ossimoro, essere un membro del senato, o un magistrato, o un tribuno e non avere una formazione legale. Ancor prima, in Grecia, tutti i cittadini delle rispettive città-stato – come Atene, Corinto o Sparta –  avevano dovuto partecipare alle loro assemblee politiche e mostrare interesse per la politica del loro stato. Erano piuttosto schietti quando si riferivano a qualcuno che invece non aveva partecipato. Li chiamavano idiōtēs (cioè persona privata, laico, persona ignorante, da idios “proprio, privato”). Tosto, eh?

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Gennaro Di Vittorio

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