Nessuna spending review per i legali
Parla schietto e non cerca giustificazioni. Mai. Forse perché Carlo Cottarelli (nella foto), cremonese, classe 1954, sa più di chiunque altro come (non) funzionano le cose lì dove si prendono le decisioni che dovrebbero cambiare le sorti dell’Italia. Un Paese in cui i migliori tentativi di riforma spesso si perdono lungo immensi corridoi costellati di scrivanie vuote. O, peggio, pieni di commessi che non hanno nulla da fare e che però vengono pagati lo stesso. E dove gli sforzi per cambiare quello che non funziona si fermano di fronte alle auto blu dei militari che sfrecciano per le strade quando piove, visto che una legge che regola come deve essere indossata l’uniforme vieta loro di andare in giro con l’ombrello.
Un’Italia al contrario in cui i ministeri pagano la carta, le penne e la benzina più degli altri perché, nonostante una legge lo prescriva, continuano a comprare in modo indipendente e non tramite la centrale di acquisto nazionale (Consip). E in cui la burocrazia non vuole saperne di mollare la presa, di diventare più efficiente e meno costosa. Quella burocrazia che Cottarelli ha tentato di domare, con risultati alterni, per un anno come commissario della spending review.
Un incarico che gli era stato affidato nel 2013 dal governo di Enrico Letta e che sarebbe dovuto durare 3 anni: il tempo necessario per tagliare la spesa pubblica italiana, da anni molto al di sopra dei livelli di guardia. Cottarelli però ha lasciato dopo solo un anno ed è tornato al Fondo monetario internazionale (dove lavora dal 1988) con l’incarico – affidatogli dal nuovo esecutivo guidato da Matteo Renzi – di direttore esecutivo per l’Italia. Il motivo? «Sono tornato a Washington (sede dell’Fmi) perché la mia famiglia non mi aveva seguito in Italia e perché ho ritenuto di aver scritto sulla spending review tutto quello che c’era da dire», aveva dichiarato ai giornali all’indomani della fine del suo incarico.
Ora però l’ex commissario torna sul tema con un libro dal titolo La lista della spesa. Una summa dei temi toccati dal suo programma di spendig review e delle possibili soluzioni. Mag l’ha intervistato e ha cercato di capire se il contenimento dei costi che vale per gli sprechi della pubblica amministrazione deve essere applicato anche alle consulenze legali.
Qual è la verità sulla spesa pubblica italiana?
Quando ho iniziato il mio lavoro come commissario alla spending review mi sono trovato di fronte una spesa pubblica alta in cui però qualche taglio significativo era già stato fatto. Dal 2010 questa voce è, infatti, calata in quasi tutte le sue componenti e per importi molto rilevanti.
Di quanto è calata?
In percentuale potremmo dire che è stata ridotta del 10% al netto dell’inflazione.
E tuttavia c’era spazio per un’ulteriore riduzione…
Esatto, soprattutto se confrontiamo la situazione italiana con quella di altri Paesi dell’area euro, molto più oculati nelle spese. Il nostro Paese eccede infatti quello che ci possiamo permettere di almeno il 2 e mezzo per cento del Pil, ovvero circa 40 miliardi.
Tagli che dovrebbero riguardare anche il settore delle consulenze?
Anche qui, in realtà, sono già stati fatti tagli molto forti. Penso al ddl 66 dell’aprile 2014 (quello degli 80 euro, per intenderci) con cui sono stati introdotti nuovi tetti di spesa per tutte le consulenze, escludendo però le università e i centri di ricerca.