Monografie: il “nuovo mondo” secondo la notaia scrittrice, Resede Ferioli

La notaia racconta in un libro il ruolo della donna nella storia e suggerisce come non educare le fanciulle in un mondo a misura di maschio

di Michela Cannovale

Lido di Spina è una piccola frazione di Comacchio. La provincia è quella di Ferrara, nel tratto in cui il Po si tuffa nell’Adriatico. Zona nota per l’anguilla cucinata in tutti i modi, d’estate si trasforma in frequentatissima località balneare. Bambini che corrono incontro alle onde, turisti che giocano a racchettoni, mentre altri preferiscono il beach volley e altri ancora amano rilassarsi all’ombra. I bar pieni, così come i ristoranti. E schiamazzi. Schiamazzi e caos ovunque, come in ogni meta della riviera che si rispetti.

D’inverno, invece, cala il silenzio. I caffè si svuotano. Le strade tornano a disporre di decine di parcheggi liberi. Le spiagge, denudate di ombrelloni e sdraio, assumono quell’aria malinconica che solo i mesi più freddi sanno dare al mare.

A Lido di Spina, estate e inverno, abita Resede Ferioli che, fino a poco più di venti anni fa, ha esercitato come notaia in Emilia-Romagna. Il suo terzo libro, Come non educare le fanciulle (in un mondo a misura di maschio), pubblicato a marzo 2024 dalla casa editrice Le Lucerne, è una storia ispirata alla sua vita dall’infanzia ad oggi, anche se nell’introduzione si sottolinea che “il racconto è integralmente frutto della mia immaginazione per quanto riguarda fatti e persone. Si è però ispirato a vaghe intuizioni occasionali delle violenze, delle pressioni e delle mutilazioni psicologiche che sono state e sono ancora inflitte al genere femminile, principalmente in ambiente familiare, vissute come una colpa e tenute nascoste per pudore, ma considerate da tutti lecite perché aderenti a usi e costumi consolidati. Mi sono ispirata a luoghi e tradizioni reali, ma soprattutto all’ambiente delle professioni legali, fonte quotidiana di ispirazione”. Cosa intenda esattamente Resede Ferioli quando si parla di usi e costumi consolidati lo capirò solo dopo aver trascorso una mattinata in sua compagnia. A Lido di Spina, per l’appunto.

Vengo accompagnata qui da un autista che mi viene a prendere direttamente a Bologna, dove ho passato il fine settimana. «Bologna-Ferrara in treno – mi aveva scritto Resede – è un’agonia che desidero evitarle. L’autista è già precettato anche per il suo ritorno, poiché non è mia intenzione, dopo l’intervista, abbandonarla al suo destino in lande impraticabili». Ho ringraziato e sono stata alle volontà della mia ospite, scoprendo peraltro che l’autista in questione, un poliziotto in pensione che guidava le famose pantere, non è altro che il marito di una conoscente. «L’appartamento della signora – mi informa il conducente – si trova nel palazzo più alto di tutta Spina, impossibile sbagliarsi». Arrivati a destinazione mi rendo conto che l’edificio è effettivamente piuttosto alto, generando un certo contrasto con il panorama marino circostante. Il mio compagno di viaggio mi accompagna fino al nono piano e si congeda.

Di Resede non avevo trovato foto prima del nostro incontro, che per questo motivo ho vissuto come quegli appuntamenti al buio che mettono addosso un senso di positiva trepidazione. Riconosco in lei, una volta entrata nel salotto, la stessa impazienza di vedermi dal vivo dopo le numerose telefonate intercorse in questi mesi.

Facciamo un breve tour della casa. Mi mostra anche il terrazzo. La vista, da quassù, è stupenda. L’altezza, tuttavia, non impedisce ai rumori estivi di disturbare le nottate di Resede, che mi racconta subito di essere in ballo con una causa ai gestori di uno degli stabilimenti balneari che la separano dal mare. «che viene usato fino alle due del mattino come discoteca all’aperto. Ma non sanno di avere a che fare con una che conosce la legge…».

Resede Ferioli si trasferisce dalla campagna emiliana a Bologna negli anni ’50 per studiare giurisprudenza. Nel paesino da cui proviene, al momento della sua nascita, è ancora attiva la partecipanza agraria, un’istituzione in vigore dal Milleduecento in base a cui la proprietà dei terreni viene affidata ogni vent’anni unicamente ai discendenti maschi delle famiglie originarie fondatrici. Nel libro, a questo proposito, viene spiegato che “sono ammessi a partecipare anche minorenni, dementi, interdetti, purché maschi, nonché il maschio nato dieci mesi dopo la morte del padre partecipante. A tale scopo, durante la gestazione si assegna il capo solo a un pezzo della donna, il ventre gestante, che è considerato unico soggetto titolare di diritti. Quando non viene alla luce un maschio, il capo assegnato al ventre si devolve all’amministrazione”.

Il padre di Resede, figlia unica, muore quando lei ha 10 anni. «Nascere in questa famiglia, in questo contesto, mi ha educato a pensare che in quanto femmina non contassi niente. Così mi aveva insegnato mia madre e così avevo imparato. C’è da dire, almeno, che il rapporto con il resto dei parenti per fortuna non era difficile: visto che tutti quanti vivevamo di poco, non c’era un padrone né uno schiavo. Tutti ci davamo da fare per lavorare, tutti collaboravamo».

Per evitare l’emarginazione che le spetta in quanto nullatenente («o, peggio, la sottomissione a un eventuale marito», puntualizza, strizzandomi l’occhio), Resede inizia presto a lavorare nei campi durante le vacanze estive per mantenersi e per frequentare una scuola di dattilografia con il metodo cieco. Ha già programmato di iscriversi all’università e si organizza in anticipo per essere in grado di trovare un impiego.

Proprio grazie alla sua abilità con la macchina da scrivere, su cui digita speditamente senza guardare la tastiera, a 18 anni trova lavoro come segretaria in uno studio legale bolognese. «Uno dei nostri compiti era ricopiare i fascicoli penali concessi in prestito dalla cancelleria del tribunale per soli tre giorni. Grazie a quel corso di dattilografia, mi muovevo a velocità tripla rispetto alle altre colleghe, il che mi dava più tempo per approfondire la materia dei fascicoli in questione e anche per osservare ciò che accadeva attorno a me. In studio ho imparato innanzitutto un nuovo modo di parlare. D’altronde, venivo da una famiglia intrisa di abitudini popolane in cui si parlava solo dialetto».

Quello che guadagna lavorando in studio, Resede lo utilizza per l’affitto e la retta universitaria, così come per tacitare il bidello dell’ateneo bolognese. «Non avevo il tempo di frequentare le lezioni perché dovevo lavorare. Ma per dare gli esami avevo bisogno della firma del professore, a cui il bidello sottoponeva i vari libretti, compresi quelli degli studenti non frequentanti», mi spiega. E poi aggiunge: «Mi sono sposata prima della laurea. Dopo il matrimonio, visto che in quel periodo non lavoravo, ho finalmente avuto il tempo di studiare e dare gli ultimi esami da frequentante».

Mentre mi parla, noto che siamo circondate dagli oggetti più disparati, tutti ricordi dei tempi e dei luoghi in cui ha lavorato e vissuto prima della pensione: oltre a libri e documenti impilati di qua e di là, mi colpiscono le miriadi di brocche, tazze, piattini, statuine, galeoni in miniatura, zucche ornamentali, e un grosso vaso in ceramica che riporta sulla pancia la scritta COCAINA. «Questa mi piaceva da impazzire. L’ho presa in una farmacia di Faenza che stava chiudendo. Per anni, solo per scandalizzare i clienti falsi moralisti, l’ho tenuta sulla scrivania dello studio, piena di cioccolatini da offrire – mi dice, notando lo sguardo evidentemente incuriosito –. A Faenza andavo spesso a comprare le ceramiche quando avevo bisogno di sfogarmi, mentre i cuscini li ho ricamati tutti io a mezzo punto. Sa, era un passatempo utile nelle notti che passavo insonni per digerire le difficoltà e talvolta le offese della giornata precedente …». Fra le stoviglie sparse in cucina identifico anche un paio di posacenere. «Ero una fumatrice accanita, poi ho fatto un fioretto e ho dovuto smettere per forza».

Dopo la laurea, Resede deve affrontare le conseguenze di un terribile incidente d’auto: «Un frontale che mi ha distrutto completamente il ginocchio, costringendomi a un trapianto osseo a 24 anni mentre ero al terzo mese di gravidanza. Le dico solo che ha iniziato a camminare prima il bambino di me… La convalescenza, comunque, mi ha permesso almeno di continuare a studiare da casa». Grazie a un concorso superato con ottimi risultati e in attesa di poter puntare allo studio legale una volta ottenuta l’abilitazione, Resede, già madre della secondogenita, va a lavorare all’Inps. «Categoria direttiva, perché avevo la laurea». Qui tocca con mano diversi segnali di “mondo a misura di maschio” e prepotenze di gruppo: «Avevo 26 anni e 45 sottoposti, quasi tutti uomini cinquantenni, la cui insofferenza nei miei confronti, solo perché donna, era parecchio evidente». Le chiedo di spiegarmi meglio e mi mostra…

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