Licenziamento disciplinare dopo il Jobs Act: per la Cassazione il fatto contestato è il fatto giuridico

È noto che, con il D.Lgs 4 marzo 2015 n. 23 (cd Jobs Act) è entrato in vigore un nuovo regime di tutela in caso di licenziamento illegittimo che trova applicazione nei confronti dei lavoratori (esclusi i dirigenti) assunti dal 7 marzo 2015.

La normativa in questione ha previsto, in via generale, una tutela meramente indennitaria in favore di tali lavoratori, con limitazione della reintegrazione nel posto di lavoro all’ipotesi (apparentemente) tassativa di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, peraltro senza spazio per alcun giudizio di proporzionalità da parte del Giudice.

Dunque, sulla base del chiaro (almeno a prima vista) tenore letterale della norma, la reintegra dovrebbe ritenersi possibile solo allorchè il datore di lavoro abbia licenziato un lavoratore sulla base di un fatto contestato, ma in verità mai commesso; in tutte le altre ipotesi, compresa quella della sproporzione del licenziamento rispetto al fatto commesso, la sanzione dovrebbe essere solo economica.

La recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 12174 dell’8 maggio 2019) che qui si segnala rimescola le carte, stabilendo sul punto che – nonostante l’apparente chiarezza del dato normativo di cui sopra – il “fatto contestato” di cui parla il Jobs Act è in verità il fatto “giuridico” e non quello “materiale”.

Il dibattitto sulla nozione di “fatto contestato” nasce ben prima di oggi, già con la Riforma Fornero del 2012. Certezza del diritto e prevedibilità dei costi del risarcimento da licenziamento illegittimo erano gli obiettivi del legislatore dell’epoca, che per realizzarli aveva confinato la reintegra ad ipotesi eccezionali: per il licenziamento disciplinare, solo in caso di “insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa”.

Dottrina e giurisprudenza avevano iniziato subito a dibattere sulla nozione di fatto contestato: perché il licenziamento possa considerarsi fondato, basta il fatto materiale o è necessario il fatto in senso giuridico? Ovvero, per usare le parole della Cassazione, basta la sola condotta “come realizzatasi nella realtà fenomenica, comprensiva cioè unicamente di azione o omissione, nesso di causalità ed evento”? Oppure rileva anche “l’atteggiamento psicologico dell’agente”?

Dopo qualche incertezza iniziale, la giurisprudenza, anche della Cassazione, aveva aderito al secondo orientamento, con ciò ampliando notevolmente le ipotesi di reintegra.

Nel 2015, tuttavia, l’entrata in vigore del Jobs Act sembrò imprimere una svolta, nel limitare la reintegra – si ribadisce – solo all’ipotesi di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”.

L’intervento legislativo sembrava avere chiuso il dibattito, ma, anche in questo caso, la giurisprudenza di merito aveva da subito iniziato a mostrare perplessità.

La sentenza della Cassazione del maggio 2019 si inserisce in questo solco, non attribuendo rilevanza decisiva al nuovo dato normativo e riaffermando la tesi del fatto “giuridico” anche per i licenziamenti disciplinati dal Job Act. La motivazione principale è che “qualsivoglia giudizio di responsabilità … richiede per il fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all’agente e, da quello oggettivo, la riconducibilità del medesimo nell’ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità”.

Il risultato finale sembra essere la riaffermazione di un ampio potere discrezionale del Giudice e, soprattutto, delle possibilità di condanna alla reintegra.

Tale esito va di pari passo con la nota pronuncia n. 194 del 2018 della Corte Costituzionale, con cui è stata dichiarata illegittima la previsione del Jobs Act sull’automatica correlazione tra l’anzianità di servizio del lavoratore licenziato e la quantificazione dell’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo. Il potere discrezionale di determinare l’ammontare di quest’ultima, in questo modo, è stato restituito ai Giudici, a fronte peraltro dell’aumento della soglia massima (fino a 36 mesi) operato dal cd. Decreto Dignità.


Articolo a cura di:
Avv Gianluca Crespi, partner di Elexia avvocati & commercialisti
Avv. Federico Trombetta, senior associate di Elexia avvocati & commercialisti

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Gennaro Di Vittorio

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