L’Antitrust e Ia compliance delle imprese

Come si concilia il rispetto dell’Antitrust con le esigenze delle aziende? Come si raggiunge quel giusto equilibrio che tra un approccio troppo rigido che ingessa l’attività delle imprese e uno troppo blando che non le tutela dai rischi? Da queste domande è partita la IV sessione del convegno “Antitrust fra diritto nazionale e diritto dell’Unione europea” organizzata dallo studio legale Rucellai&Raffaelli e giunto quest’anno alle XII edizione.

Ad animare il dibattito sulla relazione tra l’Antitrust e la compliance delle imprese sono intervenuti Nicola Verdicchio, chief legal officer di Pirelli & C.; Antonio Matonti, chief legal officer di Confindustria; Manfredi De Vita dello studio legale Fontana Galli e Associati; James Keyte, direttore del Fordham competition law institute Skadden, Arps, Slate, Meagher & Flow, Valentina Laroccia, in house antitrust counsel di Eni e Ciro Favia, head of italian antitrust and regulatory support di Enel.

Un programma su misura

“Le aziende operano a beneficio degli azionisti e degli stakeholder e questo le porta necessariamente verso una ricerca dell’allargamento del mercato. Una spinta che viene però parzialmente frenata dalla necessità di evitare di incorrere in rischi di compliance”, spiega Verdicchio. Trovare il giusto equilibrio tra queste due pulsioni non è sempre facile e questo difficile compito spetta ai programmi di antitrust compliance che devono però essere customizzati sulle caratteristiche specifiche dell’azienda, sulla sua dimensione, sulla tipologia dei suoi clienti e sui Paesi in cui opera. Ed è per questo motivo che, come spiega Matonti “Confindustria ha scelto di fornire solo delle linee guida. A nulla servirebbe invece un programma basato su un modello standardizzato che finirebbe per essere un copia incolla senza nessun legame con la realtà produttiva di quell’impresa”. Un’opinione condivisa anche da James Keyte che ha spiegato come la base di un ottimale programma di compliance anche negli Stati Uniti è proprio la ricerca di un piano che sia quanto più possibile calato nella realtà economica e produttiva di quella singola società.

Coinvolgere il business

Altra chiave per un programma di compliance antitrust in grado di funzionare davvero è il coinvolgimento del business. Opinione comune è infatti che se non c’è investitura dall’alto e se il business non collabora, è impossibile che un programma antitrust funzioni perché ciò renderebbe impossibile persino individuare le aree di rischio. “Uno degli aspetti più importanti è il committment del vertice aziendale che deve essere consapevole della strategicità e della doverosità di questa attività”, precisa Matonti. Ed è partendo da questa consapevolezza che, come racconta Favia, Enel ha deciso, all’interno del suo programma di antitrust compliance, di far firmare al business una lettera di responsabilità che, in caso di violazione, implica delle sanzioni fino al licenziamento. “Solo se la funzione antitrust ha le giuste risorse e la dovuta autonomia – chiarisce Favia – si può far funzionare davvero un programma di compliance antitrust. Ma questo significa istituire delle procedure che attribuiscano a questo dipartimento funzioni di blocco e di interdizione del business qualora si verifico dei comportamenti scorretti”.

Premialità sì ma vera

“Se per un’impresa essere in conformità è un obbligo assodato, è pur vero che un programma che garantisce benefici e sicurezze per chi lo adotta è sicuramente un incentivo in più”, chiarisce Verdicchio. Se infatti fino a qualche anno fa il diritto della concorrenza veniva perseguito solo attraverso sanzioni, oggi esistono delle misure come il programma di compliance antitrust che da un lato aiutano le aziende a prevenire e dall’altro incentivano – grazie all’aspetto delle attenuanti – ad adottare questo strumento. “Eppure – rivela De Vita – la scelta di introdurre delle attenuanti non è affatto scontata e continua ancora oggi a essere oggetto di discussioni tra chi ritiene che possano accrescere la forza del sistema e chi invece pensa che una misura di questo tipo finirà invece per minarlo”. Ma non solo. Tra i giuristi d’impresa c’è infatti anche chi come Laroccia pensa che questo sistema rischia di costringere gli in house a spingersi “oltre i limiti del lecito”. “Se infatti – spiega Laroccia – accogliamo con favore la possibilità di una riduzione delle sanzioni, non pensiamo però che per ottenerla un giurista d’impresa debba necessariamente rinunciare al legal priviledge e fornire all’Autorità documenti come i pareri dei legali esterni che potrebbero dimostrare il rispetto da parte sua di tutta la procedura”.

 

 

Gennaro Di Vittorio

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