La sfortuna di chiamarsi Millennials

Giovani, carini e disoccupati. È il titolo di un film del 1994 sulla vita, i sogni e i timori di quattro ragazzi che erano allo stesso tempo quelle di un’intera generazione: la paura dell’hiv, la difficoltà di accettare se stessi e la ricerca del lavoro dei propri sogni. Una ricerca che i giovani, carini e (ancora più) disoccupati di oggi spesso non possono più nemmeno sognare. E a dirlo non sono solo i dati Istat sulla disoccupazione giovanile ma anche quelli di un’analisi presentata qualche mese fa dal Censis (Centro studi investimenti sociali) sui cosiddetti Millenials, i giovani tra i 18 e i 34 anni.

I dati dell’istituto di ricerca raccontano una generazione diversa da quella che, negli ultimi anni, ci hanno descritto i ministri di turno e le associazioni di categoria. Una generazione fatta di sfaticati dalla pretese eccessive o, come li definì la ministra del lavoro Elsa Fornero, “choosy”. I Millenials, secondo il Censis, sono invece quelli che più degli altri sono disposti ad accettare lavori di livello e contenuto inferiore rispetto alla propria qualifica o al proprio percorso di studi. Non solo. Questa generazione ha anche una grande propensione a mettere al primo posto l’attività lavorativa e a dedicarvisi anche nei weekend (58%) e durante la notte (22,7%). Eppure, lo dicono i dati, il 36,4% di loro, nel corso dello scorso anno, ha lavorato con un contratto di durata inferiore al mese, il 23% ha avuto un impiego irregolare (in nero) e il 20,8% ha cambiato due lavori in 12 mesi.

Il motivo? Un po’ il fatto che il lavoro scarseggia – come dimostrano i dati più o meno stabili sulla disoccupazione – e un po’ perché è su di loro che è stato scaricato tutto il peso di un sistema che non funziona più. Un sistema che continua a essere impermeabile al ricambio generazionale e che per sostenere l’alto costo del lavoro dei baby boomers (la generazione dei loro padri) ha deciso di farne pagare il prezzo ai figli. Così, l’unica soluzione, per molti, continua essere quella di cercare lavoro e diritti altrove, in Paesi dove essere “giovani” non è un fattore penalizzante.

 

 

Gennaro Di Vittorio

SHARE