Il viaggio verso la cultura della compliance
«Creare cultura della compliance è il punto di partenza e anche il punto di arrivo. È infatti sia lo spunto che ci ha fatto partire in questo percorso, ormai due anni fa, ed è anche l’orizzonte al quale vogliamo tendere», spiega a inhousecommunity.it Roberta Raimondi (nella foto), head of group compliance di RGI Group, azienda che conta 1200 dipendenti e 19 uffici nell’area EMEA. La sua figura è stata introdotta in azienda nel 2020, con l’obiettivo di organizzare il Group compliance programme e coordinare tutta la serie di iniziative interne ad esso collegate. Raimondi è supportata da 5 local compliance officer, in Italia, Germania, Francia e Tunisia.
ORIZZONTE: COMPLIANCE INTEGRATA
Per l’avvocata, che ha iniziato il proprio percorso in house nel 2019 dopo alcune esperienze in studio, la strada che porta alla creazione di questa cultura della compliance è fatta di tre passaggi: «Un primo step è l’imposizione ai singoli di determinate regole, il “dover fare”; un secondo momento vede una consapevolezza più estesa, per cui la compliance diventa un tema trasversale. Infine, il terzo: la compliance integrata, che può essere tale solo se c’è una cultura diffusa, perché in quel caso permea nella sostanza il modo di fare business», prosegue Raimondi.
Le iniziative messe in campo da RGI Group hanno riguardato diversi aspetti della vita aziendale. Dall’aggiornamento e revisione del modello 231, alla predisposizione di un codice di condotta che poi ha portato alla redazione complessiva del già citato Group compliance programme. «Innanzitutto – spiega la professionista – abbiamo individuato i rischi, rispetto all’organizzazione dove eravamo, per poi dare priorità alle remediation. Abbiamo cercato di farlo lavorando in parallelo, in modo tale da non appesantire il business e da non essere percepiti come un ostacolo per l’attività aziendale: la compliance integrata infatti può e deve essere un “abilitatore” del business».
COINVOLGERE LE PERSONE
Legata al programma, è stata attivata anche una procedura di whistleblowing, un canale di segnalazione di eventuali violazioni chiamato “Speak Up!”: «Abbiamo lavorato a braccetto anche con le colleghe del marketing – spiega sempre Raimondi – per trovare una comunicazione che fosse efficace. L’obiettivo era far parlare le persone e integrarle nel sistema dei presidi di controllo».
L’avvocata spiega che un programma che si rispetti passa anche per un adeguato piano di formazione: «Abbiamo costruito internamente un training di gruppo sotto forma di gioco, una sorta di “Chi vuol essere milionario”, che nel giro di due mesi ha coinvolto più di 1000 persone, circa l’80% della popolazione aziendale. La cosa importante è stata anche qui coniugare il divertimento con l’apprendimento. Il premio? Un giorno di ferie».
LA SFIDA IN HOUSE
E proprio la capacità di saper veicolare un messaggio, spiega Raimondi, è la chiave di volta nell’attività di un legale in house: «La sfida più grande per un avvocato che decide di entrare in azienda, è parlare il linguaggio delle persone che la compongono. Svestirsi di tutte le formalità del “legalese”, interfacciarsi con i diversi colleghi, tecnici e sviluppatori, e trovare il modo di creare un canale di comunicazione che sia efficace. Tutto questo si inserisce in una realtà che va a 200 km all’ora. Perché, in fondo, dobbiamo seguire il business».
«La soddisfazione più grande – prosegue la legale – è stata vedere che oltre mille persone rispondevano alle domande di compliance e che alla macchinetta del caffè si chiacchierava su questo o quell’altro quesito. Così abbiamo capito che la strada era quella giusta: il velo da rompere, il primo passo verso la “cultura della compliance”. Ed è un merito collettivo: di tutte le funzioni di staff che hanno collaborato con l’endorsement del cda».
Ma per Raimondi, non finisce qua: «È un percorso lungo e in costante evoluzione, fatto di un continuo aggiornamento di normative, policy, persone e così via. Insomma – conclude – il viaggio verso la “cultura della compliace” è ancora lungo».