I ragazzi stanno bene
Dai report delle corti alle testimonianze raccolte negli studi, un viaggio nello stato di salute dell’avvocatura statunitense. A partire dallo sguardo di Stuart W. Risch, ex vertice legale dell’esercito americano e oggi partner di Shook, Hardy & Bacon a Washington DC, che lega inciviltà, leadership e tenuta del sistema della giustizia
Nelle aule di tribunale americane capita sempre più spesso che i giudici debbano interrompere gli avvocati durante il procedimento. Non per una questione tecnica, ma per il tono. Urla, sarcasmo, insulti, intimidazioni verbali. Episodi che un tempo sarebbero stati considerati eccezioni oggi compaiono nei report delle corti supreme statali, nei documenti delle bar association e nei corsi obbligatori di formazione sulla civility dei professionisti.
Questo deterioramento del clima professionale è uno dei segnali più evidenti di un disagio strutturale che attraversa il mercato legale degli Stati Uniti: quello legato al benessere degli avvocati. Proprio su questo punto, il Report from the National task force on lawyer well-being, il gruppo di lavoro istituito nel 2016 su iniziativa dell’American Bar Association insieme ad altre organizzazioni nazionali, si apre ricordando che “per essere un buon avvocato, bisogna essere un avvocato sano”.
Scorrendo i resoconti pubblicati su questo tema, la nostra redazione ha ritrovato alcune parole ricorrenti: stress cronico, depressione, abuso di alcol e farmaci. Condizioni diffuse tra avvocati e studenti di giurisprudenza, a cui si sommano l’angoscia economica e organizzativa del mercato e la concorrenza di fornitori alternativi di servizi legali, spesso più accessibili e a costi inferiori.
Disagio psichico, abuso di sostanze e inciviltà dell’avvocatura americana
Negli Stati Uniti più che altrove, insomma, sembra che fattori individuali e dinamiche di settore si stiano intrecciando mettendo sotto pressione una professione che, per sua natura, dovrebbe fondarsi sulla fiducia del pubblico e sulla qualità del servizio reso ai clienti.
I report prodotti negli ultimi anni da corti supreme statali, bar association e commissioni sulla professionalità hanno iniziato a collegare in modo esplicito tre fenomeni: il disagio psichico, il ricorso a sostanze per reggere la pressione e l’aumento di comportamenti incivili nelle aule di giustizia e negli studi. Questi aspetti, in passato considerati marginali, sono ormai diventati centrali nelle analisi sullo stato di salute dell’avvocatura americana.
«L’abuso di alcol e di farmaci, il burnout e i problemi di salute mentale generano rabbia, frustrazione, perdita di controllo. Da lì alla mancanza di civiltà – verso colleghi, controparti, giudici – il passo è più breve di quanto vorremmo credere», ci spiega Stuart W. Risch, oggi business litigation partner a Washington DC dello studio Shook, Hardy & Bacon dopo una carriera quarantennale nell’esercito come procuratore generale dell’U.S. Army. La nostra redazione lo ha incontrato a Philadelphia, a margine dell’annual meeting della Association of Corporate Counsel.
Risch racconta di colleghe che rientrano dalle udienze in lacrime dopo essere state insultate, di controparti che trasformano il confronto processuale in scontro personale.
Il quadro che descrive trova conferma nelle ricerche sulla bullying culture negli studi legali analizzate dalla nostra redazione, che documentano le dinamiche messe in atto dai professionisti, come urla, richieste irragionevoli, critiche continue, pressioni psicologiche. Nell’articolo ‘Civility and professionalism: are we getting better?’, per esempio, Amy G. McClurg, assistant counsel della firm Thompson Hine, riporta le testimonianze di avvocati e giudici che delineano un repertorio ormai ricorrente di “name-calling, shouting, excessive criticism of work, imposing unrealistic work demands”. Chi subisce questo clima non si sente semplicemente umiliato, ma registra tassi più alti di ansia, un calo della produttività, problemi di salute fisica e, in molti casi, sceglie di lasciare lo studio. O la professione.
«L’inciviltà, d’altronde, non è solo una questione di stile o di educazione», osserva Risch. «È un moltiplicatore di stress e un fattore di rischio per la tenuta complessiva del sistema».

Dopo il Covid, ma anche prima
Proprio su questo clima, la pandemia di Covid ha agito da amplificatore. Lo smart working, diventato la norma in molte grandi firm americane, ha reso più flessibile l’organizzazione del lavoro, sì, ma ha anche indebolito uno degli elementi chiave della vita professionale: la comunità.
«Nel mio studio lavorano circa quaranta persone. Se in un giorno ne vedo cinque o dieci, è già tanto. E ci sono colleghi che, in quattordici mesi, non ho mai incontrato di persona», racconta Risch.
Risch, che ha sempre praticato una leadership fondata sulla presenza fisica – «camminare nei corridoi, parlare con le persone, guardarle negli occhi» – vede in questo uno dei rischi più seri per la tenuta dei team: «Se non vedi le persone, non capisci chi sta male, chi sta soffrendo, chi sta perdendo il controllo o la professionalità. E se non lo capisci, quando la situazione esplode è troppo tardi». E ribadisce: «Io sono cresciuto con l’idea che il leader deve vedere le persone. Parlare con loro. Capire se qualcosa non va».
La risposta delle istituzioni forensi
Mentre l’inciviltà forense aumenta, le istituzioni cercano di reagire. Molti Stati hanno introdotto creeds, linee guida, codici di professionalità che distinguono esplicitamente tra ciò che non si può fare e ciò che si dovrebbe fare. I documenti variano, ma il lessico è coerente: ci si appella a dignità, rispetto, cortesia, onestà, integrità, lealtà verso il cliente ma anche verso il sistema, disponibilità a cooperare su tempi e modalità processuali quando ciò non danneggia il cliente.
In alcuni Stati sono nate task force dedicate alla civility, in altri – come la California – sono stati introdotti corsi obbligatori di formazione continua sulla civiltà forense come parte dei crediti MCLE (mandatory continuing legal education). In Michigan, la Corte Suprema ha adottato dodici principi di professionalità e civiltà validi per avvocati e giudici. In Louisiana, decine di ore di formazione continua sono dedicate ogni anno a questi temi.
In uno dei testi esaminati dalla nostra redazione, Henry P. Van Hoy II, partner dello studio Martin, Van Hoy & Raisbeck, descrive precisamente il clima che attraversa oggi la professione legale negli Stati Uniti in un passaggio che vale la pena riportare per esteso: “Whether justified or not, a lot of us share a common concern about the nature and future of the legal profession. Our judicial system is under attack. Our image is tarnished. Distrust of the profession appears to be growing. Though they never liked us, at least the public once respected lawyers. Now, the public’s lack of respect for us is at its zenith. The perception is that civility, collegiality, professionalism, and sometimes, sadly, integrity, are diminishing within the profession”. La civiltà – mette in chiaro Van Hoy – non è una questione di buone maniere, ma la base di fiducia senza la quale il sistema della giustizia non regge. Quando questo terreno comune viene meno, avverte, un processo rischia di trasformarsi in uno scontro di forza più che in uno strumento di tutela dei diritti.
Eppure, come precisa Risch, «oggi solo pochi Stati hanno regole davvero rigide sulla civility. Per il resto, quello che non porta a una sanzione disciplinare spesso resta senza conseguenze. E finché uno stile aggressivo continuerà a funzionare sul piano economico per alcuni clienti, gli appelli alla professionalità rischiano di restare sulla carta».
La doppia prospettiva legale e militare della leadership
È in questo spazio che entra in gioco la leadership, secondo Risch. Che ci racconta: «Quando ero alla guida del JAG Corps (il ramo legale delle forze armate statunitensi, ndr), ho sintetizzato la mia personale filosofia della leadership in quattro pilastri: principled counsel, mastery of the law, servant leadership e stewardship. Integrità, competenza tecnica, servizio verso il team, responsabilità verso l’istituzione nel suo insieme. Nella pratica, tutto questo si traduce anche in gesti minimi: una parola di riconoscimento, un biglietto di congratulazioni scritto a mano, una visita alle unità in contesti operativi. È la cosiddetta “walking leadership” che vive di corridoi, pause caffè, domande apparentemente banali». Sorride. «Nessuno di noi lavora per le pacche sulle spalle. Ma quando arrivano, nel modo giusto, ti tengono in piedi per giorni».
Poi, certo, ogni team è diverso. C’è chi lavora bene in autonomia e chi ha bisogno di confronto continuo. C’è chi cresce con il silenzio e chi con il feedback. «Devi essere il leader di cui i tuoi collaboratori hanno bisogno – sottolinea –, il che significa che lo stile di leadership non può essere scelto una volta per tutte in base al proprio carattere. L’avvocato che ama chiudersi nel proprio ufficio potrebbe scoprire di guidare una squadra di persone che hanno invece bisogno di presenza, di essere viste. E in un ambiente come quello degli studi legali, dove la misura del valore rischia di essere ridotta alle ore fatturate, questo bisogno può restare schiacciato, finché non esplode sotto forma di conflitti interni, cinismo o fuga verso altre carriere».

L’immagine pubblica dell’avvocato
I dati sulla salute mentale degli avvocati, i richiami delle corti alla civiltà e le iniziative degli ordini restituiscono l’immagine di una professione legale in fase di trasformazione. Da una parte c’è un modello di pratica che continua a premiare l’iper-competitività, il rambo lawyering, il culto delle ore fatturate e una certa aggressività presentata come zealous advocacy. Dall’altro, cresce l’attenzione verso la sostenibilità organizzativa, la retention dei talenti e la qualità della vita professionale come fattori critici.
Per Risch, la leadership non può essere considerata un accessorio di questo meccanismo. Al contrario, è ciò che impedisce a un’organizzazione di disgregarsi quando la pressione diventa insostenibile. «In gioco non c’è solo lo stato di salute di una categoria, ma la credibilità stessa della giustizia in una delle democrazie più osservate e più esposte del mondo».
Anche perché c’è un altro elemento che si aggancia questa crisi: la fiducia. «Negli ultimi anni, i sondaggi hanno mostrato un calo significativo della fiducia nelle istituzioni, dagli organi politici alle forze armate. Gli avvocati non sono mai stati particolarmente popolari, ma oggi la distanza tra professione e società è ancora più evidente», osserva Risch.
«Se un cittadino ha a che fare con un avvocato solo una volta nella vita, e quell’esperienza è negativa, tenderà a giudicare tutta la categoria», prosegue. «Siamo leader anche quando non ce ne rendiamo conto, semplicemente per come ci comportiamo. E la professionalità, in questo senso, non riguarda solo il rapporto con il cliente. Riguarda il modo in cui la professione si presenta alla società e, in ultima analisi, la tenuta del patto di fiducia tra cittadini e sistema della giustizia».
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