Gnammo pensa a una funzione legale in house
La sharing economy non trova pace. Che si tratti di trasporto in auto, come nel caso di Uber, o di cene in compagnia, come per Gnammo, sembra che il legislatore abbia intenzione di restringere sempre di più le maglie della rete attraverso cui queste imprese sono riuscite a infilarsi conquistando una fetta di mercato. È del mese di aprile il parere pronunciato dal ministero dello Sviluppo economico (Mise) che ha equiparato le attività di social eating e di home restaurant – quelle praticate da Gnammo – a quelle di somministrazione di cibi e bevande. Il ministero, in estrema sintesi, ha affermato di considerarle delle vere attività di ristorazione che, come tutti gli altri esercizi pubblici, devono rispettare una serie di norme e protocolli tra cui la Segnalazione certificata d’inizio attività (Scia). I fondatori del social network di eventi culinari però non ci stanno. «Noi non facciamo concorrenza ai ristoranti – dice Cristiano Rigon, uno dei due fondatori e direttore operativo (Coo) della società – la nostra è un’esperienza immersiva nella cucina e nella cultura delle varie parti d’Italia. Noi diamo la possibilità di mangiare la pizza a casa di un napoletano doc e vedere angoli della città lontani dai percorsi standard dei tour operator. Il nostro scopo è favorire la socialità e raccontare a quante più persone possibili l’eccellenza gastronomica italiana».
Di recente il ministero dello Sviluppo economico (Mise) ha espresso un parere sulla vostra attività. Di cosa si tratta?
Il Mise è intervenuto sulla questione dei social eating e degli home restaurant lo scorso aprile dopo che una Camera di commercio gli aveva chiesto indicazioni su come gestire queste attività. Nel parere emanato dal Ministero queste vengono però equiparate a quelle di somministrazione di cibi e bevande. In pratica le si considera come dei veri e propri ristoranti che, come tutti gli altri esercizi pubblici, sarebbero perciò obbligati a rispettare una serie di norme e protocolli tra cui la Segnalazione certificata d’inizio attività (Scia).
Qual è la vostra posizione?
Noi facciamo riferimento alla definizione di ciò che è ‘attività imprenditoriale’ secondo la Camera di commercio: un lavoro svolto con continuità, strumenti professionali e organizzazione imprenditoriale. Un’attività di social eating non possiede nessuno di questi requisiti perché si tratta di cene occasionali, preparate senza strumenti professionali e non a scopo di business. Vietare queste forme di socialità sarebbe come dire che non si possono più fare le cene a casa tra amici.
Vi sentite minacciati dal parere del Mise?
Sì. Questa risoluzione attacca il nostro business. C’è il rischio che vengano messi in atto una serie di controlli indiscriminati per attività che in realtà non li richiederebbero. Se questo parere dovesse trasformarsi in legge, farebbe perdere al nostro Paese l’opportunità di avere la paternità di un progetto che valorizza l’eccellenza alimentare italiana.
Come vi state tutelando dal punto di vista legale?
Fin dall’inizio della nostra impresa ci siamo fatti seguire da un legale esterno, l’avvocato Marco Ciurcina. Ma abbiamo intenzione di istituire al più presto una figura legale interna all’azienda.
Quanto conta per voi questa consulenza?
Tantissimo. Senza una consulenza su questo fronte non saremmo mai riusciti a calare la nostra idea nella normativa vigente. Sappiamo che la nostra attività, come molte altre che rientrano nella sharing economy, si posiziona su quel confine sottile che separa ciò che è lecito da ciò che non lo è. Il supporto legale ci ha, in questo senso, aiutati a rimanere il più possibile nella legalità.