Giurista d’impresa: anatomia di una trasformazione

L’impennata delle funzioni giuridiche in house è andata di pari passo con la soddisfazione del management che negli anni si è resi conto dei vantaggi della consulenza: fa risparmiare, è tempestiva, ed è più efficiente

di Michela Cannovale

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Fino a poco più di un decennio fa erano semplici figure di tramite tra impresa e studio legale. Oggi hanno conquistato un posto in prima linea nella c-suite delle grandi aziende. Parliamo dei giuristi d’impresa, che negli ultimi anni hanno vissuto una vera e propria stagione di empowerment, tanto nei numeri, quanto nelle modalità di approccio nei confronti della cosa legale e del business.

La crescita vertiginosa

Partiamo da uno dei dati più significativi che emergono da un confronto storico: per decenni, il panorama della consulenza legale nelle aziende statunitensi (le prime ad equipaggiarsi di giuristi interni) è rimasto pressoché immutato. La percentuale di avvocati impiegati nell’industria privata, secondo quanto riportato da Forbes, si è mantenuta costante, oscillando appena tra il 10% nel 1960, l’11% nel 1970, e tornando al 10% nel 1980.

A prima vista, nulla, a quel tempo, lasciava presagire un cambiamento. Ma come spesso accade nella storia delle grandi trasformazioni, è bastato un unico personaggio perché lo status quo venisse scardinato. Quel personaggio è Ben Heineman, che nel 1987 assunse il ruolo di vice presidente senior e general counsel del colosso General Electric. L’espansione del dipartimento legale interno dell’azienda rientrava tra gli obiettivi principali del neoarrivato general counsel. Ci riuscì: quando lasciò l’azienda, nel 2005, il suo ufficio contava circa 1.400 avvocati. Come racconta nel libro “The Inside Counsel Revolution”, edito nel 2016. General Electric puntò a “un drastico spostamento di potere dagli studi legali esterni ai dipartimenti in house, sia in termini di gestione delle questioni giuridiche che di controllo delle risorse economiche”. Heineman incarnò la figura di quello che lui stesso definì lo “statista-avvocato”, chiamato a risolvere la sfida più complessa che i general counsel si trovano ad affrontare: “Essere partner del consiglio di amministrazione, del ceo e dei leader aziendali, mantenendo al contempo il ruolo di custode dell’azienda”.

La trasformazione dell’in house counsel in statista-avvocato non ha solo riscritto la storia di General Electric, ma ha aperto la strada a un nuovo modo di concepire la consulenza legale aziendale, influenzando profondamente il settore fino ai giorni nostri. Non è un caso, a questo proposito, che a partire dagli anni ‘90 la crescita dei giuristi interni sia stata vertiginosa.
Secondo il Bureau of Labor Statistics americano, tra il 1997 e il 2017 i dipartimenti legali hanno registrato un’espansione 7,5 volte superiore rispetto alle law firm. Tra 1997 e 2016, il numero di legali interni è più che triplicato, passando da 34.750 a 105.310.

Dall’ombra ai vertici

L’impennata di funzioni giuridiche in house è andata di pari passo con una certa soddisfazione da parte dei manager aziendali, che negli anni si sono resi conto dei vantaggi strategici della consulenza interna rispetto a quella esterna. Il risparmio, innanzitutto: ci si è resi conto che l’internalizzazione delle pratiche permette una significativa riduzione dei costi legali alla loro esternalizzazione al libero foro. La tempestività: se c’è un ufficio in house, aumenta significativamente la probabilità che le vertenze urgenti (legate per esempio ai contratti, alla compliance, alla protezione dell’IP o a requisiti normativi di settore) vengano affrontate nell’immediato o, perlomeno, nel breve periodo. E poi l’efficienza: va da sé che disporre di un team di professionisti dedicati consenta una gestione proattiva e più efficiente delle questioni legali di routine e dei rischi a queste collegati.

Ci sono anche altri motivi per cui la funzione del giurista interno ha avuto successo. Interpellato da MAG, Giulio Fazio (nella foto in basso), general counsel di Enel fino al 2023 e membro del comitato direttivo di Aigi – Associazione italiana giuristi d’impresa, ha ricordato che «inizialmente, il legale in house serviva a gestire in modo strategico e privato alcune questioni più delicate. I primi giuristi d’impresa, di fatto, non erano altro che gli avvocati del capo, che avevano a cuore l’amministrazione delle faccende del boss piuttosto che quelle del business, per cui infatti ci si affidava a studi esterni». Proprio per questo, quella del legale interno, in principio, era considerata una funzione di staff, che assisteva la prima linea. «Era una sorta di overhead, una delle teste da tagliare quando diventa necessario tirare la cinghia», ha sottolineato Fazio. D’altronde, anche Robert Eli Rosen, professore di diritto all’Università di Miami, ha fatto presente in diversi articoli che i giuristi interni erano originariamente relegati a una posizione di marginalità e subordinazione e che la stessa espressione “house counsel” era paragonabile a quella di “house pet”, animale domestico.

Dopodiché, a cavallo degli anni Duemila si è registrato per queste figure un nuovo salto di status: da funzione periferica e non essenziale, hanno cominciato ad ascendere al ruolo di general counsel, figure chiave nella definizione e gestione delle esigenze legali dell’azienda. Un balzo che non ha rappresentato solo un cambio di denominazione, ma piuttosto, come si diceva all’inizio, una rivoluzione nell’approccio delle grandi aziende ai loro affari legali. Dal nuovo millennio ad oggi, la gestione delle pratiche giuridiche corporate è stata sempre più internalizzata. “Più a meno”, abbiamo più volte scritto nei nostri articoli, facendo riferimento all’aumento crescente dei compiti e delle responsabilità che ha caratterizzato in questi anni l’attività dei dipartimenti legali. Che hanno così potuto approfondire la conoscenza del settore industriale della propria azienda, concentrando l’ultimo baluardo dei consulenti esterni in tre aree specifiche: contenzioso, operazioni straordinarie e ristrutturazioni aziendali.

Dalla private practice all’azienda

Come ci ha spiegato Ermanno Cappa (nella foto in basso), partner fondatore dello studio Cappa & Partners ed ex giurista in house del settore bancario dagli anni ’70 al 2007, la nascita dell’avvocato interno è stata «un fenomeno rivoluzionario sotto vari profili. Limitandoci a considerare i più tangibili, mi pare incontestabile che l’impresa, perlomeno la più illuminata, internalizzando buona parte dei presidi legali, si sia dotata di un fattore competitivo di tutta evidenza, sia in termini di razionalizzazione dei costi, sia, soprattutto, in termini di interiorizzazione di una maggiore consapevolezza del proprio bisogno di consumo giuridico. Il mercato si è trasformato molto lentamente, privilegiando, in ultima analisi, le imprese munite di un presidio legale interno di qualità. Le prime aziende che hanno sentito il bisogno di un legale interno sono state quelle a forte vocazione internazionale, senza distinzione di settore merceologico».

Ma quanto tempo ci è voluto perché in Italia diventasse “frequente” scegliere la professione in house, inizialmente considerata di serie B rispetto a quella – “originale” – nel libero foro? Per Cappa, «per quanto riguarda la grande impresa (e la media impresa, specie se situata a Milano) credo di non sbagliare affermando che in una ventina d’anni, dagli albori di Aigi alla fine degli anni ‘70, vi sia stato un forte incremento. Per la piccola impresa il cammino è forse ancora un po’ lungo».

La professione in house ha raggiunto il suo apice tra 2010 e 2020, periodo in cui molti avvocati del libero foro hanno deciso di spostarsi in azienda a causa dei turni di lavoro in studio lunghi e stressanti. Oggi il divario sembra essersi leggermente appianato: dopo il Covid, le law firm hanno migliorato i tassi di fidelizzazione dei propri partner concedendo maggior flessibilità in un contesto dove gli stipendi erano comunque già più alti rispetto a quelli aziendali (e in cui si sono ulteriormente alzati, con un incremento medio annuo che, rapporto Censis sull’Avvocatura alla mano, nel 2021 è arrivato al 12,2%, portando il valore a 42.386 euro). Come aveva spiegato a MAG Nicoletta Ravidà, socia di KeyPartners: «Negli studi legali si è creato un mix vincente: equilibrio tra vita privata e lavorativa, stipendi che aumentano e recenti politiche governative volte a ridurre le tasse pagate dai liberi professionisti (l’aliquota del 15% per tutti i redditi compresi fra zero e 85mila euro, infatti, permette di raggiungere retribuzioni altissime, spesso superiori a quelle di un dirigente d’azienda). Nel frattempo, gli stipendi in azienda non sono cambiati».

L’attrattività nei confronti del mercato legale in house, pur alle prese con il suo competitor nel libero foro, continua a rimanere alta. Come osservato da Inhousecommunity, nel 2023 gli avvocati che solo in Italia sono passati dal libero foro all’azienda hanno rappresentato l’11,3% dei complessivi cambi di poltrona segnalati nel corso dell’anno, quota di poco inferiore al 12,8% segnalato nel 2022.

«Tanti anni fa – ha osservato Fazio – finire in azienda era quasi un ripiego: ci si finiva per caso, dopo un concorso. La consulenza esterna aveva invece un livello di specializzazione e di competitività molto più alto, con stipendi nettamente superiori. Oggi la professione in house è decisamente più appetibile, tanto che anche l’offerta accademica ha intercettato questo fenomeno: moltissime università hanno istituito corsi con materie che servono per dominare elementi di complessità aziendale e master che effettivamente dedicati a chi vuole diventare giurista d’impresa».

La trasformazione fino ad oggi

Consideriamo, a questo punto, il cambiamento radicale di cui il giurista d’impresa è stato protagonista fino ad oggi. Come ha messo in luce Fazio, «nella prima fase delle aziende, negli anni ’80 e ’90, il legale era puro consulente. Nella seconda fase, a partire dal 2000, il legale è diventato business partner, ma rimanendo pur sempre un counselor e senza esprimere ancora tutto il suo potenziale. Dopodiché, nella terza fase, quella attuale, il legale interno ha iniziato ad avere un ruolo profondamente pervasivo in azienda, che implica la capacità di prendere decisioni a livello manageriale e che ha un peso anche nella compliance, prima affidata ai team di audit. Da business partner è diventato business manager. Non è più un consulente che interviene per risolvere i problemi, ma un leader che pianifica le strategie di business insieme al management aziendale».

Dunque, dove un tempo il team legale operava in isolamento, fornendo mere consulenze tecniche su richiesta, oggi il general counsel è chiamato a contribuire attivamente alle discussioni aziendali e alle decisioni strategiche, aggiungendo valore in ogni ambito, dalla governance aziendale alla gestione dei rischi e delle crisi. Ma deve anche pianificare i budget, mantenersi aggiornato sugli sviluppi tecnologici, occuparsi di etica e pure di compliance. È nata, insomma, una nuova figura in cui il confine tra competenze legali e manageriali è sempre più sfumato.

Un cliente esigente

Se è vero, come ha affermato Cappa, che «nelle realtà in cui è presente un giurista d’impresa di qualità, che abbia modo di confrontarsi con legali esterni di altrettanta qualità, scatta fra i due ordini di professionisti una sinergia vincente, che fa tanto bene all’impresa», è vero anche che l’evoluzione del ruolo dell’avvocato interno ci consente di osservare il mercato legale da un punto di vista ancora diverso alla prospettiva offertaci dal – sempre più comunicativo, nota Nicola Di Molfetta in questo numero di MAG Monografie – studio, fornitore del servizio legale: quello del suo cliente. E sappiamo inoltre che il tipo di consulenza richiesta è cambiata anch’essa, che il giurista d’impresa è cliente sempre più esigente, rigoroso, alle volte quasi inflessibile.

Come nel caso di Nicola Verdicchio, chief legal officer della multinazionale Pirelli & C., che a giugno 2024 aveva raccontato a MAG: «Partiamo da un concetto base: la selezione dello studio legale sbagliato rischia di compromettere il raggiungimento degli obiettivi aziendali di business che l’in house counsel deve perseguire. Se c’è necessità di ricorrere all’ausilio di professionisti esterni, è perché in gioco ci sono importanti obiettivi».

La trasformazione della figura del general counsel ha comportato un cambiamento nelle dinamiche di potere: sono ora gli uffici legali interni, non i consulenti esterni, a definire e assegnare il lavoro, a circoscrivere le dinamiche di collaborazione. Questa inversione di paradigma, unita alle nuove esigenze del mercato, ha guidato il tradizionale rapporto tra general counsel e partner verso una dimensione nuova. Non è più solo una questione di status o di autonomia decisionale, come evidenziato dal caso General Electrics di Heineman, ma di una ridefinizione completa del modo in cui le competenze legali vengono integrate nel mondo degli affari. Il potenziamento – perché di questo si tratta – del consulente legale interno da semplice fornitore di pareri a figura strategica di leadership, ha innescato un effetto domino che sta ridefinendo anche il ruolo delle law firm. Tanto che, oggi, l’aspettativa di influenzare le decisioni aziendali cruciali con una prospettiva giuridica che va “oltre il ruolo dell’avvocato” si estende a entrambe le parti. Se l’ufficio legale interno siede al posto di guida, quelli esterni sono sempre pronti a fungere da co-piloti. O, per usare un’espressione molto trendy nel mercato, se il giurista d’impresa è il dottore generale, il professionista esterno opera in veste di medico specialista. Una dinamica, questa, che negli ultimi tempi ha intensificato la ricerca di partner esterni di alta qualità, capaci di supportare efficacemente le crescenti esigenze delle aziende.

michela.cannovale@lcpublishinggroup.com

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