General Counsel ed etica d’Impresa: una diversa prospettiva

di Fabio Londero, Group General Counsel di Danieli & C. S.p.A.

I recenti sviluppi politici nel nostro Paese, orientato a politiche e decisioni meno populiste e più equilibrate, dovrebbero incoraggiarci a promuovere un dibattito approfondito, più concreto e meno politically correct sul ruolo del general counsel (GC), direttore affari legali o giurista d’impresa che si voglia.

Anzitutto una banale ma doverosa premessa. Il ruolo del general counsel in un’azienda industriale è profondamente diverso da quello svolto presso una banca o un’assicurazione. Altrettanta diversità si riscontra tra l’essere direttore affari legali in un’azienda a conduzione familiare (come la gran parte delle aziende italiane) piuttosto che, per esempio, direttore legale EMEA di una multinazionale straniera.

Parliamo linguaggi diversi, profondamente diversa è la nostra purpose. Tutto questo ha riflessi sostanziali nella governance dell’azienda e quindi nel ruolo del general counsel, nel numero delle risorse, nella nostra organizzazione e, in definitiva, nella nostra mission. Quando proprietà e management coincidono, l’approccio del general counsel è, a mio parere, molto più diretto, operativo, davvero manageriale.

La premessa è utile per entrare nel cuore della questione. Leggo spesso, anche negli articoli di MAG e quelli in generale sul mondo legale in house, del coinvolgimento del GC in tematiche di tipo “etico”, della necessità che l’ufficio legale sia coinvolto nell’ambito del “socialmente responsabile”, attento alle tematiche degli stakeholders piuttosto che a quelle degli shareholder. Si parla ora di sostenibilità legale.

Come general counsel, e quindi quali manager apicali, dobbiamo porci alcune domande. Qual’è il ruolo dell’impresa e quindi quale deve essere il nostro ruolo? Per il fatto che abbiamo studiato giurisprudenza, siamo davvero titolati a essere portatori di valori etici particolarmente qualificati, più e meglio di altre funzioni aziendali?

Cinquanta anni fa Milton Friedman diceva che la sola responsabilità sociale delle aziende è (e rimane) fare profitti. Aggiunse “nel rispetto delle regole e delle consuetudini etiche”. Non voglio annoiare nessuno con tutte le discussioni che, da sempre, esistono tra miltoniani e i fautori della CSR e tuttavia credo che sia arrivato il momento di fare un po’ di ordine. Al di là di una certa ipocrisia sul tema, occorre ribadire che la nostra “responsabilità”, parallelamente a quanto pensava Friedman, è quella di essere (e rimanere) gli avvocati delle nostre aziende.

Fare gli interessi degli shareholder piuttosto che di imprecisati stakeholders (siamo proprio sicuri che non si tratti di interessi in conflitto?!) è e rimane un obbiettivo naturale, direi dovuto nella gran parte delle aziende italiane. Questo non significa che non siamo in grado di consigliare, orientare i nostri azionisti e amministratori verso decisioni con il minor tasso di rischio ma assumere il ruolo di consiglieri etici delle nostre aziende, al di fuori e oltre quelle che sono le leggi vigenti nella nostra Repubblica, a me pare un ruolo francamente irricevibile.

Quanto sopra non significa che, per ragioni reputazionali e quindi, in ultima analisi, di “vile” profitto, l’azienda non prenda decisioni etiche o politiche o comunque “socialmente responsabili” che travalicano il mero rispetto delle norme o che i nostri azionisti di riferimento non siano mossi da valori e principi ulteriori e più “alti” rispetto alla massimizzazione dei profitti. Ma questo non può e non deve essere prerogativa del general counsel.

Quanto sopra ovviamente hai dei riflessi nella struttura organizzativa delle aziende. Per quanto ci riguarda, per esempio, la distinzione di ruolo e di mission tra ufficio legale e compliance. In più, se noi siamo manager e quindi partecipi dell’obbiettivo “fare profitti”, evidentemente non possiamo essere promotori di sistemi organizzativi iper normati  e costosi o che comunque vadano ben al di là di quanto giusto fare per tutelare compiutamente gli interessi dell’azienda. Non possiamo e non dobbiamo ingrandire oltremisura uffici legali e compliance pronti a redigere protocolli su protocolli, formidabili codici etici che nessuno mai vedrà o osserverà e che travalicano quanto ci chiede il legislatore.

Il nostro vero e unico presidio è la responsabilità legale delle nostre aziende, vale a dire il rispetto delle norme e delle leggi che la società ha fissato per regolare la responsabilità economica dell’impresa, quella di fare profitti. Qualsiasi altro contributo sul fronte propriamente etico vale in quanto singoli cittadini, portatori di propri valori e interessi ma non può e non deve essere la bussola dell’agire di un general counsel.

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Gennaro Di Vittorio

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