Il general counsel c’è, anche quando non si vede

Si chiama “open innovation” ed è – come l’ha definita Henry Chesbrough, l’economista e scrittore statunitense che per primo l’ha teorizzata – «un paradigma che afferma che le imprese possono e debbono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche».

L’innovazione, è risaputo, richiede ricerca. E chi meglio delle Università è in grado di fare ricerca? Per questo è nell’accademia che le aziende cercano un partner strategico in grado di supportarle nella crescita e nel miglior posizionamento sul mercato.

Di questo si è parlato durante l’incontro “When big business goes to college. A legal perspective for a successful partnership” organizzato dall’Association of corporate counsel (Acc) – l’organizzazione internazionale dei giuristi d’impresa più grande al mondo che conta oltre 40mila membri ed è presente in 85 Paesi – e il Politecnico di Milano, che ha raccontato alcune partnership di successo tra imprese e università.

Cosa c’entrano i general counsel in tutto questo?

Semplice, il più delle volte sono proprio loro gli “artefici nascosti” di queste partnership. Sono loro a occuparsi, ad esempio, di gestire gli accordi sulla proprietà intellettuale delle ricerche, i marchi, la riservatezza, i patti di manleva, l’uso degli strumenti e le responsabilità nell’evenienza di danni alle attrezzature o a terzi.

Tutte questioni centrali che ruotano attorno all’innovazione e che, soprattutto, la proteggono.

Si ricreda quindi chi pensa che l’innovazione in azienda passi solo dai manager e dagli ingegneri. Perché passa anche dall’ufficio legale.

Gennaro Di Vittorio

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