Compliance sine qua non
C’è una tematica che negli ultimi anni ha assunto un valore sempre più preponderante per le aziende: la compliance. Complice il proliferare di leggi e regolamenti che ha infittito il quadro normativo in cui operano le imprese. E lo sviluppo, all’interno delle organizzazioni, di una cultura basata su principi etici, di integrità e sostenibilità.
Per affrontare le ragioni che hanno innescato una crescente attenzione a questi temi, MAG ha parlato con Marco Reggiani, general counsel di Snam, Marco Omedé, compliance director di Luxottica e Paolo Orioli, head of corporate compliance & ethics e Paolo Colapenna, direttore internal audit di Edison. Ovvero con alcuni dei responsabili compliance che hanno aderito alle iniziative “Italian Business Integrity Day” di Trasparency International, ospitate nelle ambasciate italiane di diverse città del mondo, per presentare le buone pratiche in materia di compliance e anti-corruzione messe in campo dalle rispettive aziende.
Le ragioni
«Lentamente tutta una serie di regole, che erano state annunciate dall’ONU e dalla comunità europea, sono diventate legge ‒ spiega Omedé ‒ Gli ultimi esempi sono quelli della bribery corruption e del GDPR. Lo sviluppo della privacy in Europa è stato rapido, all’inizio venivano dati dei consigli, nel 1995 siamo passati alle istruzioni da considerare nell’attività di formulazione delle leggi nazionali, poi dal 2016 siamo passati a un regolamento unico europeo, con piena applicazione dal maggio 2018». Anche il sistema regolamentare labour e anti-corruption, spiega il manager, viene da regole inizialmente dettate dalle Nazioni Unite, che poi si sono sviluppate mano a mano nei vari Paesi. In Italia con il decreto legislativo 231/2001, in Spagna con la Ley Organica, in Francia con la Loi Sapin II e in Regno Unito con la UK Bribery Act 2010.
L’impegno sempre maggiore in materia di anticorruzione e compliance è legato, secondo Reggiani, oltre che al fattore normativo, che ha spinto le aziende ad adeguarsi ai nuovi vincoli per evitare sanzioni onerose, «al mercato, che ha visto nascere fondi etici o che puntano alla sostenibilità che hanno valorizzato la compliance anche come elemento di investimento strategico».
Non è poi da sottovalutare quanto è stato fatto dalle singole organizzazioni che hanno iniziato ad adottare atteggiamenti virtuosi e a darsi delle regole di comportamento ben precise. «Essere compliant ‒ sottolinea Colapenna ‒ vuol dire rispettare norme e regolamenti, non solo di natura strettamente legale, ma anche le varie procedure di cui l’azienda si è dotata. All’interno delle imprese si è sviluppata la consapevolezza che il rispetto delle regole è importante, siano esse dettate da regole operative interne, o da esigenze di legge». Inoltre «negli ultimi anni le aziende hanno preso sempre maggiore coscienza dei rischi a cui potrebbero essere sottoposte. E la gestione dei rischi è una materia di cui la compliance costituisce parte integrante», aggiunge Orioli.
Infine, avere un sistema di compliance forte comporta dei benefici in termini di presenza sui mercati e ritorno economico. «Nelle gare pubbliche ‒ evidenzia Orioli ‒ insieme al prezzo dell’offerta, viene presa in considerazione anche l’integrità dell’azienda. Un elemento che costituisce un vantaggio competitivo tangibile, anche nei casi di assegnazione di incentivi». Ma la compliance è uno strumento chiave del business soprattutto in quanto custode della reputazione aziendale. Un aspetto fondamentale sia per i gruppi che lavorano con parti terze che per quelli che si rivolgono direttamente al consumatore. «È una questione che, al giorno d’oggi, va difesa e curata dalle grandi aziende al pari del lato patrimoniale e finanziario», sottolinea Reggiani.
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