Agostino Nuzzolo: «Lo smart working? Solo un mito»
Il general counsel di Tim racconta a MAG come sceglie i membri della sua squadra e come è stato traghettatore del gruppo durante il cambio del management
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Agostino Nuzzolo. Un nome che non ha bisogno di troppe presentazioni nel mondo dei giuristi d’imprersa. Dopo dieci anni in Italcementi e uno in Italmobiliare, dal 2017 è a capo della direzione legale di Telecom Italia in qualità di general counsel, legal and tax affairs executive vice president e secretary of board. La sua squadra, composta da 150 persone che lavorano su quattro aree diverse (societario, legale, privacy e tax) l’ha plasmata a sua “immagine e somiglianza”.
L’assetto del team è razionale, scientifico, logico, coerente. Esattamente come è stata la sua conversazione con MAG.
Appena è entrato in Telecom Italia ha subito riorganizzato la direzione legale aziendale. Che cosa ha fatto esattamente e, soprattutto, perché ha avuto bisogno di farlo?
La prima fase della riorganizzazione ha riguardato più che altro la divisione dei compiti all’interno della struttura legale. Quando sono arrivato, infatti, c’era una suddivisione tradizionale tra chi supportava operativamente le funzioni di business e chi seguiva i contenziosi. Una suddivisione, questa, che francamente non trovavo molto funzionale, anche perché fonte di complessità, sovrapposizioni e difficile attribuzione di responsabilità. Ecco dunque che ho preferito organizzare il team per processi aziendali, quindi per aree di business, con un profilo di responsabilità end to end. Per cui oggi c’è chi supporta l’attività dei vari operatori di telefonia, cd. OLO; chi è concentrato sulle attività commerciale, sia business che consumer; chi, infine, supporta gli altri processi aziendali per rimanenza, quindi acquisti, information technology e real estate. Questa è stata la prima grande trasformazione che ho avviato, peraltro non particolarmente innovativa, ma dettata semplicemente da una logica di diversa gestione del capitale umano rispetto a chi mi ha preceduto.
E la seconda?
La seconda dipende da un altro fatto di cui ho preso atto quando sono entrato, e cioè che la società usava strumenti di lavoro obsoleti, poco pratici. La cooperazione avveniva nella migliore delle ipotesi attraverso cartelle condivise e comunicazioni via mail. Mezzi dunque molto tradizionali a fronte di una massa documentale spaventosa. A questo proposito, tenga presente che Telecom ha una storicità di contenziosi costanti nel tempo, pari a circa 30.000 l’anno… La seconda trasformazione si è dunque focalizzata sulla digitalizzazione del processo di gestione del contenzioso attraverso un software già acquistato prima di me e mediante il quale ho realizzato un percorso personalizzato per processare gli atti giudiziari.
E come lo ha creato questo percorso?
Lavorando per obiettivi. Il primo obiettivo era riportare i miei collaboratori su ruoli operativi, sottraendoli a ripetitive attività di data entry e altre meramente burocratiche. Il secondo obiettivo era dare vita ad un sistema di reporting sul lavoro dei legali (interni ed esterni) che ci permettesse di capire cosa funziona e cosa non. Il terzo obiettivo, che in realtà ancora non ho avuto il tempo di implementare, è dare al sistema la capacità di un’analisi predittiva del contenzioso, in modo da capire in anticipo che tipo di atto giudiziario impostare e quale accordo stabilire tra le controparti.
So che, oltre al contenzioso, le stava particolarmente a cuore la questione dei contratti…
Sì, e in particolar modo ho lavorato alla messa in atto del life contract management. Ovvero sia: una gestione dei contratti (e sono migliaia i contratti che ogni anno vengono stipulati da Tim) in una piattaforma unica, che permetta di trovare facilmente il singolo documento, di sapere immediatamente quanti trattative sono in corso, chi le sta conducendo, con quali format e quale sia il legale intervenuto. Ma ancora di più quanto sono i contratti in corso e se la loro esecuzione sta avvenendo regolarmente. In questa direzione vorremmo fare in modo che la piattaforma monitori con degli alert automatici le varie fasi dei singoli contratti, verificando se c’è un adempimento da gestire a un anno dalla firma, se c’è una cauzione da sbloccare… Un altro sogno che ho è che questa piattaforma diventi smart al 100%, rendendosi conto in maniera automatica e indipendente che un contratto è diventato anacronistico a causa di una modifica normativa o un fatto giurisprudenziale, proponendo addirittura il cambiamento della clausola. Non solo. Vorrei anche che la stessa piattaforma fosse in grado di rilevare esattamente dove e come vengono acquisiti i clienti, se al telefono, su Internet, fisicamente da un agent fuori da un supermercato… Insomma che fornisca la geolocalizzazione del contratto stesso. Non ci sono ancora sistemi così intelligenti, però ci sono le legal tech, che non vedono l’ora di ingaggiarsi su progetti sfidanti e, qui da noi, di sfide ne abbiamo tante.
Digitalizzazione a parte, in Tim ha puntato molto anche sul ringiovanimento della sua squadra legale… Ce n’era davvero bisogno?
Il fatto è che Tim è un’azienda “vecchia”, con un’età media di 54 anni. Io avrei voluto un ringiovanimento più massivo, ma non posso lamentarmi troppo. Quello che sono riuscito a fare, l’ho portato a termine attraverso l’apporto di nuove risorse giovani che avevano appena finito di studiare. Ho avviato con alcune università dei progetti di stage che consentissero ai ragazzi di avvicinarsi all’attività legale in house. E in questi casi è sempre un do ut des: la persona giovane porta dentro l’azienda pensiero laterale e vivacità, mentre l’azienda offre l’opportunità di fare esperienza. Poi, certo, non dico che tutte le persone in stage siano state assunte, ma alcune di queste sì.
L’assunzione, quando c’è stata, da cosa è dipesa?
Sia dalla disponibilità di budget di quel momento, sia ovviamente dalla qualità della persona in stage. E nella valutazione del candidato io sono un po’ tradizionale…
Cosa intende?
Oggi, per esempio, tra le priorità di un giovane che si avvicina a un’azienda, c’è il mito dello smart working, su cui io continuo ad essere abbastanza critico. Cioè io dubito che esista la possibilità, per un ragazzo che voglia imparare un mestiere, di farlo da casa, sentendosi telefonicamente con gli altri colleghi. Non può essere questa la strada. Mi sfugge come uno scambio da remoto possa essere proficuo. Vivere l’azienda dall’interno secondo me è fondamentale. Diverso è intendere lo smart working come flessibilità, che poi penso sia la vera natura della definizione; e cioè la possibilità di conciliare il lavoro con le esigenze personali, anche quelle eccezionali, perché no. Un impegno improvviso, il dover viaggiare lontano dalla propria sede. Ecco, inteso come flessibilità e misurazione dell’output e non dell’input, ovvero le mere ore di presenza in ufficio, sono totalmente favorevole. Anzi, amo l’idea che la tecnologia ci abbia liberato dalla schiavitù di dover giustificare un’assenza e ci permetta di lavorare in modo flessibile da qualunque parte, ma questo non vuol dire che debba portarci ad un’altra modalità lavorativa costantemente in remoto. E chi non è d’accordo con me, beh, libero di farlo, ma non troverà posto nella mia squadra.
Ok. Fingiamo che mi presento a colloquio con lei e non mi piace lo smart working. Quali altri qualità devo avere per poter essere considerata?
Un’altra skill fondamentale è l’intelligenza sociale. Mi spiego: secondo me, oggi, la qualità più importante è saper stare all’interno di un’organizzazione, capire come in quell’organizzazione si vive, ci si relaziona e come, se necessario, farla evolvere.
Come si comporta, invece, quando i talenti devono essere trattenuti e non semplicemente attratti?
Stimolandoli, indicando loro la strada migliore e, qualora se lo meritino, promuovendoli. E anche in questo caso bisogna essere equilibrati: bisogna capire quali risorse interne soddisfare con una promozione e quali invece selezionare dall’esterno per portare linfa nuova nell’azienda. Il mio mix è stato un 60-70% di promozioni interne e un 30% di innesti in posizioni dirigenziali dall’esterno.
E ha funzionato?
Non vorrei essere autocelebrativo, ma credo proprio di sì. D’altronde, non è che posso promuoverli tutti quanti. L’azienda mi concede una o due promozioni all’anno.
Rimaniamo in tema selezione. Come si comporta quando deve individuare uno studio legale che affianchi la sua squadra in un’operazione più o meno complessa? Quali requisiti guidano la sua scelta?
In realtà, per quanto riguarda la consulenza, ho deciso di lanciare un progetto nuovo. Ho diviso in cluster le aree di collaborazione con i legali esterni (ad esempio la contrattualistica, il settore digitale-media, il contenzioso regolatorio, quello appalti, ecc.) ed entro fine anno vorrei lanciare una gara per assegnare le attività a tre-cinque studi specializzati, affidando loro un mandato biennale. La gara partirà a dicembre, sto completando la richiesta di offerta, comprensiva per la prima volta anche dei requisiti ESG richiesti agli studi.
Parliamo ora del ruolo del general counsel. A fine 2021 è stato nominato il nuovo amministratore delegato di Tim, Pietro Labriola. Sbaglio se dico che, durante il passaggio del management, ha dovuto vestire i panni anche del “traghettatore” della società?
Guardi, in sei anni che sono in Tim sono cambiati quattro amministratori delegati e quattro presidenti in realtà. Il cambio del management è sempre un momento caotico.
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