Disabilità e lavoro: cosa c’è dietro quel 12%?
Secondo le stime dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), nel nostro Paese hanno un’occupazione 3 persone con disabilità su 10 e il loro salario medio annuo si ferma a 18mila euro annui, a fronte di una retribuzione media nel settore privato di 38.565 euro nel 2023 (Istat). Il differenziale retributivo orario è del 12% e – dice l’Oil – il 9% di questo divario non può essere spiegato da disuguaglianze nei livelli di istruzione, età e tipo di lavoro.
Con cosa si spiega allora? Mi sono messa a fare qualche ricerca, scoprendo che il cuore della questione sta nel modo in cui il mercato del lavoro è ancora (mal) progettato.
Il primo dato che emerge è quello della cosiddetta segregazione occupazionale: molte persone con disabilità vengono assorbite in mansioni meno retribuite o considerate “sicure”, quelle che non richiedono adattamenti o responsabilità crescenti. Non perché non possano svolgere ruoli diversi, ma perché molte organizzazioni preferiscono assegnare mansioni considerate più “semplici da gestire”, evitando così di ripensare processi, strumenti o responsabilità.
Secondo dato: la discontinuità lavorativa, spesso dovuta a terapie o condizioni di salute. Ma il punto non è l’assenza: è la mancanza di un sistema capace di reinserire senza penalizzazioni sulla carriera. Ogni pausa diventa un rallentamento strutturale. E, di conseguenza, ogni rallentamento si traduce in retribuzioni più basse.
Si aggiunga a quanto detto finora un terzo aspetto: le opportunità non distribuite in modo equo. Chi ha una disabilità, accede meno facilmente a percorsi formativi, incarichi speciali, progetti visibili. Anche qui: non per mancanza di merito, ma perché spesso prevale l’idea infondata che una persona con disabilità abbia meno disponibilità per incarichi strategici. Così, a parità di competenze, l’accesso alle opportunità non è equo e i percorsi professionali finiscono per divergere.
E poi c’è quello che gli studi chiamano “unexplained gap”, che non è altro che quella parte di differenza salariale che non si riesce a spiegare con variabili misurabili. Come possiamo tradurlo in italiano? Con una parola semplicissima: discriminazione. Non necessariamente come gesto intenzionale, ma come somma di pregiudizi, automatismi e percezioni distorte della fragilità.
È anche per questo che, nel nuovo episodio di Diverso sarà lei, ho scelto di parlare del progetto Raffaello, che nasce proprio dall’idea di affrontare questi nodi mettendo insieme diritto del lavoro, impresa e medicina del lavoro. Al mio fianco ai microfoni, questa volta, Giulietta Bergamaschi, avvocata giuslavorista, co-fondatrice e managing partner di Lexellent e ideatrice del progetto Raffaello. Buon ascolto!