«La (troppa) regolamentazione può diventare innovazione»

Troppe norme incidono sulla creatività. Ma per Claudio Elia, group VP e legal counsel di STMicroelectronics, si può trasformare questa complessità in leva competitiva per il business

di michela cannovale

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Il GDPR, l’AI Act, il Cyber Resilience Act: negli ultimi anni l’Europa ha costruito un quadro normativo imponente, che è al tempo stesso garanzia e ostacolo per le imprese. Strumenti pensati per proteggere cittadini, dati e mercati, ma che spesso si traducono in maggiori costi di compliance, tempi dilatati e crescente complessità operativa, con ricadute dirette sulla capacità delle aziende di trasformare le idee in vera innovazione.

Un’analisi confermata anche dal Rapporto Draghi sulla competitività europea, presentato nel 2024, che ha messo nero su bianco i limiti strutturali dell’Unione rispetto a Stati Uniti e Cina. Tra i fattori che alimentano il cosiddetto innovation gap, l’ex presidente della BCE ha indicato proprio la proliferazione di norme poco coordinate e la mancanza di un mercato unico realmente integrato, oltre alla difficoltà dell’Europa di tradurre i risultati della ricerca in prodotti competitivi. La soluzione, secondo Draghi, passa anche da una decisa semplificazione del quadro regolatorio.

È in questo scenario che si colloca la riflessione di Claudio Elia, group vice president e legal counsel di STMicroelectronics, intervenuto alla tavola rotonda “Regulation: innovation’s nemesis?” durante l’ACC Europe Annual Conference 2025 di Barcellona. L’incontro, organizzato con il supporto di Squire Patton Boggs e moderato da Lola A. Willemsen (head of legal EMEA di Mitsubishi), ha visto la partecipazione anche di Katerina Mangana (chief legal officer di ION SA) e Wolfgang Maschek (partner di Squire Patton Boggs). A margine della discussione, la redazione di MAG ha raccolto il personale punto di vista di Elia sul nodo irrisolto tra innovazione e regolamentazione, un terreno che ridefinisce la funzione dei dipartimenti legali e li costringe a ripensare il proprio ruolo all’interno delle imprese.

In molti considerano la regolamentazione un ostacolo per le imprese. Lei come la vede?

Premetto che quello che condivido qui rappresenta la mia opinione soggettiva, non la posizione ufficiale dell’azienda. Detto questo, credo che la regolamentazione possa essere entrambe le cose: sfida e opportunità. Oggi le aziende devono confrontarsi con un numero enorme di norme – parliamo di quasi mille testi legislativi rilevanti – e questo inevitabilmente crea complessità. Allo stesso tempo, però, la compliance può trasformarsi in un vantaggio competitivo. Se un prodotto è conforme fin dall’inizio, non rischia di essere bloccato o ritirato dal mercato. E soprattutto rafforza la reputazione dell’azienda, un aspetto che in tempi di forte sensibilità etica e ambientale pesa quanto e più del risultato economico.

Quindi il problema non è la regolamentazione in sé, ma la sua complessità?

Esatto. Una norma è utile quando è chiara e semplice da applicare. Penso ad esempio all’AI Act, al Cyber Resilience Act o al GDPR: strumenti fondamentali, ma che avrebbero bisogno di un lavoro costante di semplificazione. È un tema che ha sottolineato anche Mario Draghi nel suo rapporto sull’innovation gap: l’Europa deve semplificare, altrimenti rischia di restare indietro. Il dialogo tra industria e istituzioni è decisivo: solo così si possono produrre testi più snelli e davvero applicabili.

Ma quando le norme diventano troppo complesse, di chi è la responsabilità? Dei legislatori che le scrivono o dei giuristi che le interpretano?

Direi di entrambi. Se ci fosse un confronto più strutturato fin dall’inizio tra associazioni di categoria e regolatori, molte difficoltà potrebbero essere evitate. Ma è anche vero che in Europa prevale un approccio precauzionale, che tende ad anticipare i rischi. Negli Stati Uniti, invece, spesso si lascia che il mercato sperimenti e solo dopo si interviene con regole correttive. È una differenza culturale: l’approccio europeo porta inevitabilmente a testi più complessi, che non sempre si adattano alle esigenze dei singoli settori.

Il suo settore, quello dei semiconduttori, vive questa complessità in modo particolare. In che misura pesa anche il contesto geopolitico?

Moltissimo. I semiconduttori sono la base tecnologica di prodotti sempre più connessi, quindi regolati da un numero crescente di norme. A questo si aggiungono le restrizioni all’export, che variano da paese a paese e hanno un impatto diretto sul business. In questo quadro, il dipartimento legale diventa un punto di riferimento: siamo noi a fornire al management una lettura strategica degli scenari, indicando rischi e opportunità sia nel breve che nel lungo periodo. È proprio qui che il legale interno guadagna peso come partner della C-suite.

Spesso però succede che la regolamentazione soffochi la creatività…

Io la vedo in modo diverso: il nostro ruolo di giuristi in house è quello di orientare la creatività, non di bloccarla. Quando si sviluppa un nuovo prodotto, il legale aiuta gli ingegneri a capire quali sono i confini normativi entro i quali muoversi. In questo modo, li mettiamo nelle condizioni di esprimersi senza rischiare di creare soluzioni non conformi. La chiave, però, è il lavoro interdipartimentale: legale, compliance, ricerca e sviluppo, public affairs. Solo collaborando strettamente si riesce a trasformare le regole in terreno fertile per l’innovazione.

Se invece le regole non vengono integrate correttamente nello sviluppo, il prezzo da pagare può essere alto. In che misura lo avete riscontrato?

È così: un [… ]

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michela.cannovale@lcpublishinggroup.com

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