E tu che lingua parli?

Un tempo, certe parole non avrebbero toccato nessuno. Oggi invece vengono scritte sui social e da lì si tuffano nella realtà. Vera Gheno: «Chi è già adulto fa fatica ad accettare il cambiamento, mentre le generazioni più recenti arrivano già con una dotazione di diversity a bordo»

di Michela Cannovale

QUESTO ARTICOLO COMPARE SU ‘RIVOLUZIONI’, L’ULTIMO NUMERO DI MONOGRAFIE DI MAG – SCARICA QUI LA TUA COPIA

Prima di cominciare: in questo articolo compaiono parole che potrebbero provocare fastidio o sofferenza a chi legge. Sono citate per precisione filologica.

Il primo giorno del mio praticantato come giornalista, il gruppo editoriale per cui lavoravo si premurò di farmi arrivare una mail contenente il “Regolamento contro l’hate speech”: un elenco delle parole che nessuno di noi avrebbe mai dovuto utilizzare all’interno dei propri articoli. Termini come negro, rom, talebano, giudeo, terrone o checca, per esempio, ma anche handicappato, minorato, brutto, ciccione, zoppo, ritardato, pezzente sono off limits, spiegava la direttiva, in quanto “potrebbero incitare alla degradazione o alla perpetrazione di soprusi, offese e stereotipi negativi nei confronti di persone o gruppi in base a origine, genere, religione e disabilità”.

La spinta a un linguaggio politicamente corretto non ha interessato solo il giornalismo. Su più fronti, nel corso degli ultimi anni, sono emerse iniziative a favore non semplicemente – o non unicamente – di un progressismo femminista, antirazzista e Lgbt, ma in nome di uno spostamento della sensibilità che tenga in considerazione tutte le minoranze, tutte le identità, le età, le forme, i colori. L’attenzione si è focalizzata sulla necessità di costruire una società in cui nessuno si senta giudicato, discriminato, escluso, e in cui anche il linguaggio, in grado di tenere conto di tutte le accezioni che una parola può assumere a seconda del contesto in cui viene pronunciata, rispetti il principio di inclusività.

Sul linguaggio attento

Intervenuta ai microfoni della nostra redazione, la linguista Vera Gheno (nella foto in basso) fa presente che «è assolutamente naturale che il linguaggio si adegui al mondo, che tra lingua e realtà ci sia un’influenza continua e reciproca. È sempre successo, per ogni trasformazione socioculturale. Lo stesso periodo della pandemia di Covid ha provocato una serie di sovvertimenti a livello linguistico senza che ce ne rendessimo conto lì per lì. Per dirne una: il verbo ‘tamponare’, che prima indicava un incidente d’auto, ha subito una completa risemantizzazione. Quella che adesso chiamiamo rivoluzione, quindi, esiste di fatto da sempre. Poi, certo, ci sono momenti, come quello attuale, in cui i cambiamenti sono più veloci che in altri».

Una nuova concezione del campo comunicativo, insomma, nata non solo perché, attraverso la globalizzazione, abbiamo iniziato a considerare punti di vista diversi da quello – «occidentalocentrico, bianco, cisgender e cristiano-cattolico», osserva Gheno – che per secoli ci è stato tramandato come unico e universale, permettendo così alla lingua di entrare di riflesso nel vortice del mutamento. Ma anche perché, è proprio il caso di dirlo, non sono più i tempi di una volta. Come scrive Elisa Cuter nel suo Qualcosa di sinistra. Una critica marxista alla wokeness, “certe affermazioni razziste o sessiste, certe battute indelicate, certe generalizzazioni offensive lette o viste in televisione o al cinema un tempo non facevano storcere il naso” dal momento che “le opinioni del pubblico non avevano altra forma di espressione che le lettere al direttore sui quotidiani, restando quindi una questione circoscritta […]. Oggi invece vengono scritte sui social, e da lì rimbalzano tra le bacheche”. Fino ad arrivare sui media tradizionali, nelle case, nelle piazze.

Proprio l’immenso ecosistema del web è stato il primo a fare da cassa di risonanza all’urgenza di un linguaggio non discriminatorio. I dipartimenti delle grandi corporation dei social network si sono rimboccati le maniche e hanno cominciato a tenere sotto stretto controllo i commenti pubblicati dagli utenti, censurando quelli che concorrono all’incitamento all’odio. È sempre Elisa Cuter a ricordare che “ci sono state certe vicende, specie negli Stati Uniti, in cui a tweet infelici di singoli sono seguite vere e proprie campagne di diffamazione e licenziamenti in tronco”. Mai come nel secondo trimestre del 2021, poi, Meta ha rimosso o segnalato contenuti inadeguati su Facebook e Instagram: 41,3 milioni in tutto, secondo il Rapporto di Trasparenza pubblicato dal gruppo. La cifra è scesa a 16 milioni tra gennaio e marzo del 2024, con buona pace dei leoni da tastiera e delle loro shitstorm.

Attenzione al linguaggio anche offline, in azienda e nei rapporti tra colleghi. Manager e datori di lavoro sono oggi invitati a preferire frasi come “i tuoi obiettivi sono stati parzialmente raggiunti” a “stai lavorando male”, e a parlare di “punti di attenzione” piuttosto che di “errori”. E non più perché si temono eventuali vertenze sindacali o azioni legali da parte dei dipendenti, ma perché “così si fa”.

Il politicamente corretto è arrivato a investire persino l’irriducibile mondo del calcio. La Fifa ha annunciato a maggio 2024 di voler rendere il razzismo dei tifosi “un reato specifico che sarà obbligatoriamente incluso nei singoli codici disciplinari delle 211 federazioni affiliate”, con ripercussioni penali per i colpevoli e sanzioni fino alla sospensione della partita e assegnazione della vittoria a tavolino se i cori non dovessero fermarsi. L’ultima notizia a questo proposito risale all’ 11 ottobre 2024, giorno in cui la Uefa ha imposto un turno di squalifica a due settori della Curva Nord della Lazio, più un secondo con sospensiva di un anno, per ululati e saluti fascisti nella gara contro il Nizza.

Sulla lingua, le donne e il gender

Non solo di antifascismo si tratta. Il risveglio del politicamente corretto è andato a braccetto anche con le rivendicazioni per l’emancipazione delle donne cui il movimento femminista esorta da tempo e che, negli ultimi anni, hanno trovato pane per i propri denti soprattutto nei luoghi di lavoro dove il potere maschile è storicamente radicato. Era il 2023 quando l’Accademia della Crusca ha deciso di esprimersi sul linguaggio di genere, confermando la correttezza linguistica della declinazione degli appellativi al femminile quando a ricoprire il ruolo è una donna. Sì quindi a notaia, avvocata, magistrata, ingegnera, sindaca, prefetta, marescialla, capitana e colonnella (a onor di cronaca: in questi casi sarebbe meno corretto usare il suffisso -essa, quindi avvocatessa o colonnellessa, adottato storicamente in passato per indicare “la moglie di”).

A questo proposito, alcuni ricorderanno l’esclamazione di Ambra Angiolini sul palco del Concertone del primo maggio nel 2023. Parlando di condizione lavorativa e parità di genere, la cantante urlò: «Tenetevi le vocali, ridateci i diritti!». Eppure, secondo Gheno, «lo strumento con cui la società conosce e riconosce la realtà è proprio la parola. Ecco perché il modo in cui parliamo favorisce un cambiamento di percezione. La femminilizzazione delle professioni, in questo senso, può rendere più visibile la donna anche nei contesti lavorativi in cui le donne in posizioni apicali sono sempre state poche. D’altronde, non viviamo forse in una società in cui il maschile è la base? Si pensi solo che pure le dimensioni degli scalini dei nostri palazzi seguono, dietro indicazione di Le Corbusier, le proporzioni dell’uomo maschio medio, alto 183 cm e in grado di raggiungere i 226 alzando le braccia».

Certo, il fatto che la lingua italiana sia fondata su un binarismo che al singolare declina solo al maschile e al femminile – ma non possiede forme prive di genere – rende di per sé difficile l’utilizzo di un linguaggio inclusivo per le persone che non riconoscono di appartenere né all’uno né all’altro genere. E così, sull’onda del cambiamento, anche sui social hanno cominciato a proliferare, per dirla alla Vera Gheno, «soluzioni fatte in casa per ovviare alla struttura di genere dell’italiano, sentita come una limitazione». Via allora ad accorgimenti tipo lo schwa come marcatore di genere indistinto: “tu sei altə”, quindi, al posto di “tu sei alto” o “tu sei alta”.

Ma l’italiano non è stato ancora capace di venire in soccorso a un’altra complicazione: quella di imporre il maschile plurale come genere grammaticale non marcato (detto anche sovraesteso). È per evitare la ridondanza, sostengono alcuni. Perché mai, in fondo, dovremmo perdere tempo a pronunciare “i pantaloni e le magliette nel tuo armadio sono tutti e tutte colorati e colorate”? Ma anche in questo caso, per Gheno, il maschile non marcato «è usato soprattutto per tradizione, perché la nostra è una lingua nata in un contesto androcentrico». Ci ha pensato il rettore dell’Università di Trento, Flavio Deflorian, ad accendere i fari sulla questione, quando ha annunciato di aver promosso l’uso del femminile sovraesteso nel nuovo regolamento varato dall’ateneo. Tutte le cariche e le funzioni ricoperte all’interno dell’istituto – tra cui professoresse e studentesse – vengono ora declinate al femminile, indipendentemente dal fatto che chi le ricopre sia donna o uomo. Suona strano, no? Ma «leggendo la bozza del regolamento, come uomo mi sono sentito escluso» aveva ammesso Deflorian, spiegando di essersi sentito costretto per la prima volta a «riflettere sulla sensazione che possono provare quotidianamente le donne quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali».

Sulla guerra culturale

Ai sostenitori delle posizioni appena elencate, si contrappongono coloro che ritengono che l’avvento di questa nuova prudenza verbale assuma troppo spesso i caratteri dell’intransigenza. Che sia eccessiva, dannosa. Che possa incoraggiare la società civile, scrive ancora Cuter, “a diventare giuria di un tribunale che deve valutare danni, soppesare intenzioni, comminare punizioni e stabilire risarcimenti”.

Guardando a quest’ultima fazione, alcuni casi sono stati particolarmente eclatanti. L’uso della declinazione al femminile negli atti pubblici, per esempio, ha scosso a tal punto i deputati della Lega, da portare uno di loro, il senatore Manfredi Potenti, a firmare nel luglio 2024 una bozza di proposta di legge con l’obiettivo di, spiegava il testo, “preservare l’integrità della lingua italiana e, in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici, come ‘sindaco’, ‘prefetto’, ‘questore’, ‘avvocato’ dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo. Occorre scongiurare che la legittima battaglia per la parità di genere, al fine di conseguire visibilità e consenso nella società, ricorra a questi eccessi non rispettosi delle istituzioni”. E proseguiva: “La violazione degli obblighi comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1.000 a 5.000 euro”. Il Ddl, che ha scatenato la mobilitazione dell’opposizione e della società civile, è poi improvvisamente naufragato. La Lega lo ha ritirato, definendolo “un’iniziativa del tutto personale” del collega Potenti. Eppure, gioverebbe ricordarlo, così come difficilmente si possono imporre dei cambiamenti linguistici, allo stesso modo è altrettanto improbabile vietarli con leggi.

Nella corrente dei contrari rientra anche Barbara Alberti, scrittrice che nel 2022 ha vinto il premio alla carriera, ex femminista e un tempo iscritta al Partito Radicale. Purificare il linguaggio, per Alberti, è una censura del pensiero che può prendere derive maniacali. Intervistata dal Foglio, sui suoi 81 anni ha affermato: «In mia presenza nessuno usa la parola ‘vecchio’. Allora faccio schifo? Essere vecchi è una cosa così brutta che non si può neanche nominare? Ma la vita è questa: si nasce, si invecchia, si muore. Bisogna guardare in faccia la realtà. L’idea di rimediare alle disgrazie umane modificando il linguaggio è assurda. Arriveremo a dire che una persona non è morta ma è diversamente viva!».

Per non parlare dell’ancor più radicale (e il riferimento in questo caso non è a Marco Pannella) sindaco di Terni, Stefano Bandecchi, che, alludendo ai femminicidi e per supportare la teoria secondo cui il maschio che reagisce al rifiuto con la violenza è l’eccezione, ha dichiarato pubblicamente che «un uomo normale guarda il culo di una donna e forse ci prova: se ci riesce se la tromba, altrimenti torna a casa. Offendetevi quanto vi pare, questa è la mia idea».

Sul come finirà

Per alcuni, a questa disputa sulla lingua dovrebbe essere data una lettura anagrafica: da un lato abbiamo una generazione più giovane, naturalmente sensibile al tema dell’inclusività, che si oppone a una generazione di senior che tra le proprie caratteristiche non annovera certo quella della sensibilità. Commenta Gheno: «Chi è già adulto fa fatica ad accettare il cambiamento, che è sempre fonte di timore e sofferenza visto che richiede un adattamento da parte dell’individuo. È questo il motivo per cui le generazioni dei meno giovani mostrano più resistenza quando si tratta di linguaggio. Le generazioni più recenti, invece, che sono nate mentre il cambiamento era già in atto e che quindi arrivano già con una specie di “dotazione di diversity” a bordo, non la vivono con altrettanta fatica. Anzi, a dirla tutta si stupiscono che ci siano tante elucubrazioni intorno al tema del linguaggio».

Ci si potrebbe legittimamente domandare: cosa ci riserva il futuro? Siamo davanti a una rivoluzione del linguaggio – ora più attento a tutte le diversità – che è destinata a normalizzarsi?  Fino a quando il tema del politicamente corretto continuerà a sconvolgere la sfera pubblica e privata, provocando litigi in famiglia, tra amici e nei luoghi di lavoro, in uno scontro spesso sterile e compulsivo tra chi porta avanti le istanze di un lessico da ripensare e chi, di contro, sostiene che non si possa più dire niente?

Torna in mente, a questo punto, il Michele Apicella di Nanni Moretti che, schiaffeggiando l’intervistatrice che gli chiedeva se avesse alle spalle un “matrimonio a pezzi”, tuonava: “Come parla! Come parla! Le parole sono importanti. Come parla!”.

Secondo Gheno, bisogna tener presente che anche all’interno della stessa fazione di chi è favorevole al linguaggio inclusivo «ci sono certamente molti dubbi e frammentazioni. Tutte, comunque, si muovono in direzione di una destituzione del patriarcato. Nella mia più rosea previsione, auspico che la società si renda conto che è giusto che tutte le persone, indipendentemente dalle loro caratteristiche, abbiano diritto alla felicità in campo socioculturale, esistenziale e anche linguistico. E lo dico perché la felicità può passare anche dalla possibilità di autodefinirsi, cioè di usare per sé le parole che si scelgono per sé. ‘Persona con disabilità’, allora, perché ‘handicappato’ e ‘diversamente abile’ sono entrambe etichette scelte da soggetti senza disabilità. Ma c’è pure il rischio di tornare indietro a una visione rigorosamente normocentrica della società, in cui i diversi vengono condannati alla marginalizzazione, anche attraverso il linguaggio. Quello che succederà in futuro, allora, dipende da quanto saremo in grado noi, con le nostre varie istanze, di agire in maniera coerente e coesa».

michela.cannovale@lcpublishinggroup.com

SHARE