Dati al servizio del business: i giuristi d’impresa cercano chiarezza
Nell’era della digitalizzazione, i dati vanno a braccetto col business. O, almeno, così dovrebbe essere. Una recente indagine realizzata dalla law firm Osborne Clarke in collaborazione con European Company Lawyers Association (Ecla) mette in luce le difficoltà e le sfide dei legali in house nel gestire le implicazioni giuridiche relative allo sviluppo dei modelli di business data-driven. I giuristi d’impresa sono infatti chiamati a co-guidare l’innovazione e a contribuire al successo della data-strategy. Il report ha un campione di circa 400 direzioni legali di aziende europee di medie e grandi dimensioni. Una prima evidenza è che, per circa due in house counsel su tre, il quadro giuridico e normativo sui dati risulta essere il principale ostacolo all’implementazione di modelli di business data-driven: il 68% afferma che è troppo complesso, mentre è ben strutturato solo per l’11%.

A proposito di quadro normativo, l’Unione europea è impegnata nello stabilire i principi guida per la regolamentazione dei modelli emergenti, “con interventi che – spiega la nota a commento del report – avranno un impatto su qualsiasi operatore nell’Ue, contribuendo attivamente a plasmare lo sviluppo dell’ecosistema europeo dei dati. Si muove in questa direzione, ad esempio, la proposta europea di Data Act, una delle numerose normative che produrrà sostanziali modifiche nell’accesso e nell’utilizzo dei dati e con cui le aziende dovranno misurarsi”.

Secondo i risultati della ricerca, quasi due terzi delle aziende europee offrono prodotti o servizi data-driven, mentre il 26% pianifica di farlo entro il prossimo futuro. Al tempo stesso, però, solo il 36% dispone di una strategia sui dati. Dall’indagine, il mercato delle collaborazioni si prospetta dinamico: il 42,5% delle aziende sta sviluppando (o sta pianificando) prodotti o servizi data-driven in collaborazione con terze parti commerciali (qui tutta l’indagine).

Per una “lettura guidata” al report, MAG ha intervistato Gianluigi Marino (nella foto), partner, head of digitalisation di Osborne Clarke in Italia, il quale spiega il contesto in cui è stato realizzato lo studio: «Il nostro obiettivo è intuire, con quanto più anticipo possibile, l’evoluzione del panorama giuridico e di business e fornire linee guida con tempestività. La strategia europea per il quinquennio 2020-2025 è focalizzata sui dati e intende rendere il sistema normativo un’infrastruttura fertile per lo scambio, lo sfruttamento di dati – non per forza personali – e la creazione e diversificazione di servizi che siano più efficienti e a costi più bassi per gli utenti».
In questo scenario, qual è stato il metodo che avete applicato nel realizzare il report?
In collaborazione con Ecla, abbiamo chiesto agli in house counsel quale fosse la loro percezione in merito alle strategie di business aziendali basate sui dati. Si parla tanto di data driven business model ma spesso queste formule sono delle “buzzword”, come in altri ambiti lo sono metaverso, nft e via dicendo. Volevamo andare oltre la patina e capire, attraverso lo sguardo delle direzioni legali, se in Europa le aziende stiano realizzando modelli di business basati sui dati, se li hanno in mente e quale sia la loro posizione a riguardo.
Che fotografia si ricava?
Una sensazione di disorientamento da parte di in house counsel, ma non solo loro, anche da parte dei professionisti di studio e degli accademici, rispetto alla grande incertezza normativa. Bello, bellissimo un modello di business basato sui dati…ma poi ci si chiede se un determinato approccio/modello sia davvero legittimo, quali siano i rischi, se la normativa – realizzata per la maggior parte tramite regolamenti europei – raggiunga davvero lo scopo di uniformità della legislazione o se ci siano ancora delle sacche di incertezza, che possono portare a vanificare eventuali investimenti.
Può farci degli esempi dell’utilizzo di dati al centro di strategie di business?
Intanto è bene chiarire un concetto: non parliamo solo di dati personali. Quando si parla di dati, e ora sempre più con la data strategy, non è solo un tema di tutela delle informazioni che si riferiscono alle persone fisiche, ma in generale dello sfruttamento di quelle informazioni che non sono dati personali.
Cioè?
Pensiamo allo smart building. Avere informazioni rispetto all’irraggiamento o alla temperatura (esterna e interna) contribuisce, con adeguate tecnologie a supporto, a decidere come organizzare la distribuzione delle persone all’interno dei piani della sede di una società e i relativi servizi, come condizionatori o riscaldamento. Questo si coniuga con lo smart working e con i metodi di “prenotazione” del posto di lavoro in ufficio: se so che arriveranno tot persone, posso suggerire loro di andare tutti allo stesso piano, in modo da avere minori spese energetiche. In questi casi si tratta di combinare dati personali con informazioni esterne. Il presupposto è che ci sia un investimento in infrastrutture, in primis da parte del costruttore e poi del soggetto che offre i servizi in un edificio “intelligente”.
Oltre l’immobiliare?
Gli esempi sono davvero tanti. Ne riporto uno che coinvolge pubblico e privato: i dati aggregati relativi al traffico, che sono utili per politiche urbanistiche non solo da parte di soggetti pubblici, ma anche di privati con licenze e autorizzazioni. Pensiamo alla micromobilità con i monopattini o al car sharing: sapere dove e quando c’è un maggior flusso, riferito a gruppi di persone e quindi non più dato personale ma aggregato, permette di ottimizzare i parcheggi o capire dove mantenere la presenza di veicoli in una determinata ora.
Il nocciolo della questione, dunque, è la gestione e l’utilizzo di queste informazioni…
Nel caso del machine learning, per allenare le intelligenze artificiali, occorre utilizzare migliaia, milioni di dati, che spesso personali non sono. Questo è per certi versi più semplice sul piano regolamentare, ma non significa che sia un “far west” e che chiunque possa usare queste informazioni. Tornando al real estate: se il costruttore mette dei sensori, che permettono di raccogliere dati rispetto al numero di persone che entrano in una certa fascia oraria, il tema è: di chi sono quelle informazioni? Il costruttore le dà in licenza all’utilizzatore? Per quanto tempo? In mancanza di una normativa chiara, va tutto messo per iscritto. Ma spesso, fino a poco tempo fa, c’era poca attenzione a porre queste clausole nero su bianco a livello negoziale. Non solo in Italia, ma in generale in Ue. […]
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