Randstad: secondo i lavoratori la formazione è la chiave contro la crisi
Secondo i lavoratori italiani la formazione è lo strumento fondamentale per garantire l’occupabilità durante la crisi e guardare con fiducia al futuro. Un bagaglio di cui la grande maggioranza sente di disporre: l’85% dei lavoratori ritiene di aggiornare regolarmente le sue competenze, 4 punti in più della media globale (ben sopra i tedeschi, 73%, i francesi, 70%, e gli inglesi, 73%). E l’86% ritiene oggi, nel pieno della pandemia, di possedere le competenze necessarie per trovare impiego in un’altra azienda o in un altro settore, più di tutte le persone tra i 45 e i 54 anni (che sfiorano il 90% di risposte).
Sono queste alcune delle evidenze del Randstad Workmonitor, l’indagine semestrale sul mondo del lavoro di Randstad, operatore nei servizi HR, che ha analizzato la percezione dei lavoratori su competenze professionali e ambiente di lavoro durante la pandemia intervistando oltre 800 dipendenti in 34 Paesi.
Quasi otto lavoratori su dieci (79%) affermano di disporre delle apparecchiature e delle tecnologie necessarie per affrontare la trasformazione digitale del lavoro, con una discreta omogeneità di genere e di età. Mentre solo il 38% dei dipendenti ha giudicato “difficile” acquisire nuove competenze per adattarsi al lavoro durante l’emergenza Covid19
La responsabilità dell’aggiornamento delle competenze – stando al campione analizzato – è indiscutibilmente del datore di lavoro, indicato dal 50% degli intervistati (22 punti in più della media globale). Solo per il 33% questa responsabilità è condivisa tra dipendente e datore di lavoro, la visione più diffusa nella media globale (51%). Per il 16% è principalmente dei dipendenti (e per l’1% dei sindacati). Allo stesso modo, quasi metà dei lavoratori (47%) assegna al datore di lavoro anche la responsabilità di riqualificare i dipendenti nel caso restassero disoccupati a causa della crisi Covid19, per favorirne la rioccupabilità; solo in minor misura chiamano in causa il governo (24%), i dipendenti stessi (21%) o i sindacati (8%).
Emerge tuttavia un sodalizio con l’impresa: durante la pandemia il 66% dei lavoratori ha avvertito un sostegno mentale ed emotivo da parte del datore di lavoro (giudizio omogeneo per genere, ma più sentito fra i più giovani, tra i quali arriva al 70%). Con una preoccupazione per il futuro: nel mondo che verrà dopo la pandemia, circa metà dei dipendenti italiani (51%) pensa che i datori di lavoro avranno difficoltà a trovare talenti adatti per le esigenze aziendali.
La formazione, secondo i lavoratori, è anche l’elemento più importante per giudicare gli sforzi di un datore di lavoro nel creare un ambiente inclusivo: l’impegno all’aggiornamento della forza lavoro è al primo posto in classifica con il 36% di preferenze, seguita dalla creazione di una forza di lavoro diversificata (34%), dalla creazione di ambiente e spazi di lavoro inclusivi (30%), dall’incoraggiamento dei gruppi di risorse (28%) e dalla presenza di posizioni di leadership di persone provenienti da contesti differenti (24%). Meno importanti, poi, vengono la responsabilità sociale d’impresa sotto forma di donazioni o raccolte fondi, la collaborazione con organizzazioni senza scopo di lucro, la pubblicità delle politiche sull’inclusività, la pubblicità del datore di lavoro e – in ultimo, poco considerate – le giornate di volontariato dei dipendenti.
In linea con la media globale, però, gli italiani apprezzano l’ambiente di lavoro che la loro impresa ha saputo costruire: mediamente il 77% lo ritiene “inclusivo” (contro l’80% nella media globale), una percezione omogenea tra uomini e donne (78% e 76%), ma più sentita dai lavoratori della fascia 35-44 (83%). Un ecosistema in cui spesso aspettative e realtà collimano: secondo i lavoratori la propria azienda ha effettivamente dimostrato di essere inclusiva negli sforzi per la formazione nel 36% dei casi (completa simmetria rispetto alle attese), nella creazione di una forza di lavoro diversificata (29% di risposte), in un ambiente e uno spazio di lavoro inclusivi (20%), nell’incoraggiare i gruppi di risorse o inserendo leader provenienti da contesti differenti entrambi (nel 19%).