PwC: serve uno smart working inclusivo che ottimizzi il work-life balance

Lo smart working è stato al centro del digital event “Italia 2021–Competenze per riavviare il futuro” organizzato da PwC Italia. Si calcola, infatti, che il 35% di tutti i lavoratori italiani potrebbe usufruire dello smart working data la struttura del nostro tessuto produttivo, rispetto all’effettivo 26% di lavoratori in smart working durante il lockdown e al solo 2% del 2019, come emerse da una ricerca dell’Osservatorio del Politecnico di Milano. Un tema che ha dunque più connessioni e implicazioni.

 

Equilibrio e flessibilità 

Il lavoro agile potrebbe aiutare molte donne a entrare o rimanere nel mercato del lavoro. Secondo il Women in Work Index 2020 di PwC, se l’occupazione femminile raggiungesse il livello della Svezia (dove è occupato full-time il 60% delle donne in età lavorativa, contro il 32% dell’Italia), l’impatto sul PIL italiano sarebbe pari a 659 miliardi di dollari.

Non solo, il 22% degli italiani, secondo la European Working Condition Survey evidenzia che lavora più di 40 ore a settimana e il 9% dei lavoratori almeno una volta al mese deve recarsi in ufficio con scarso preavviso. Le richieste non si traducono però in maggiore flessibilità: il 33% degli intervistati ritiene difficile riuscire a prendersi due ore libere durante l’orario di lavoro per esigenze personali o familiari.

Questione di rischi 

Il possibile restringimento degli spazi di socialità offerti dagli uffici rischia di tradursi in un nuovo impoverimento del tessuto di relazioni, con criticità per gli smart workers. L’Harvard Business Review, già nel 2018, invitava a porre attenzione al rischio di burnout tra i lavoratori in smart working. Infatti, l’efficienza dei lavoratori migliora con livelli contenuti di smart working, ma diminuisce con uno “smart working eccessivo”, il che implica l’esistenza di uno “sweet spot” in cui l’efficienza dei lavoratori e quindi la loro produttività – è massimizzata ai livelli intermedi di smart working.

Un altro rischio è quello di fare un passo indietro nella questione del gender gap. La crisi pandemica, infatti,  ha colpito con maggiore severità le donne, accentuando divari già in essere. I dati ONU confermano che le donne si sono trovate in prima linea nel gestire la fase emergenziale, sia tra le mura domestiche che fuori: svolgono infatti il triplo del lavoro di cura domestica non retribuito rispetto agli uomini e rappresentano il 70% degli operatori nell’assistenza sanitaria e sociale nel mondo.

Nuovi orizzonti 

L’Ufficio Studi PwC Italia ha stimato che il PIL italiano potrebbe crescere fino a un +1,2% se tutti i lavoratori le cui mansioni lo permettono ricorressero allo smart working. La riduzione della presenza fisica nelle grandi città potrebbe rappresentare un vantaggio anche per i business stessi. L’afflusso di professionisti in aree a basso indice di sviluppo dovrebbe avere un effetto positivo per questi territori, dal momento che i territori che ospitano all’interno della propria forza lavoro un mix di lavoratori specializzati in ICT, economia della conoscenza e Industria 4.0 presentano performance migliori.

In questo contesto, occorre favorire la parità di retribuzione e le pari opportunità, sviluppare interventi strutturali e infrastrutturali che permettano di superare ostacoli materiali – oggi ineludibili – e servizi di supporto alla cura dei familiari. L’analisi dei migliori casi di implementazione dello smart working proposti dal Politecnico di Milano (tutti relativi a progetti avviati prima dello scoppio della pandemia) evidenzia che le aziende che prima delle altre si sono preparate a questo cambiamento hanno individuato quattro aree di intervento: tecnologie, formazione, change management e organizzazione degli spazi.

Non solo, il passaggio a una nuova fase di ampia diffusione di questa modalità richiede un nuovo intervento del legislatore che faccia chiarezza su alcuni temi, a partire dall’equilibrio da trovare per quanto riguarda diritto alla disconnessione, welfare aziendale e responsabilità legate a cybersecurity e data protection.

Gennaro Di Vittorio

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