Mori: Perché la Golfo-Mosca va prorogata
di rosailaria iaquinta
Uno su tre. O meglio una su tre. È il rapporto tra consiglieri donna e uomo nei cda delle quotate in Italia. Vale a dire dunque che per ogni donna che siede in consiglio ci sono due colleghi uomini. Un risultato che è stato possibile raggiungere a seguito dell’introduzione nel nostro Paese della Golfo-Mosca, ovvero la legge 120 del 2011 che ha previsto al primo rinnovo degli organi dei consigli di amministrazione una rappresentanza femminile di un quinto, e di almeno un terzo al secondo e al terzo rinnovo. Un provvedimento che si avvicina alla scadenza, attesa per il 2020, e che per questo motivo ha riacceso i riflettori su di sé da qualche mese.
La proposta di legge per la proroga della Golfo-Mosca per tre ulteriori mandati (a firma dell’onorevole Cristina Rossello FI e sostenuta da tutte le forze politiche) presentata a gennaio alla Camera e ora in mano al Senato, ha alimentato il dibattito sull’utilità delle quote di genere nei cda. C’è chi sostiene che riproporre il provvedimento sia inutile visto che l’obiettivo della soglia minima del 30% nei cda delle quotate è stato raggiunto e in alcuni casi superato (la media stando ai dati più recenti è al 33,5% con picchi del 37%). E c’è chi invece difende la possibile proroga della legge, sostenendo che la strada da fare sia ancora lunga. Ne abbiamo parlato con Sandra Mori, la presidente di Valore D e DPO di Coca-Cola Europe. Ecco cosa ci ha detto:
Avvocata Mori, molti sostengono che l’obiettivo del 30% ormai è stato raggiunto e superato e che quindi una proroga non sia necessaria…
Le aziende che hanno raggiunto l’obiettivo del 30% sono le circa 350 quotate italiane. E lo hanno fatto perché su di loro vige un obbligo. Sulle partecipate pubbliche ci sono molti meno dati e non è chiarissimo quanto questo obbligo sia stato rispettato, ma presumiamo di si. Tutto il resto è ancora molto lontano da questi equilibri. Il fatto di avere una legge e quindi un obbligo, aiuta a diffondere un certo tipo di cultura ed indirettamente fa leva anche sulle altre aziende, spingendole a confrontarsi con questo obbligo e – magari – porsi degli obiettivi simili.
Quindi lei pensa sia giusto prorogare la legge?
Tre mandati non sono sufficienti a creare una cultura di diversità nei board. Non prorogare la legge significherebbe rinunciare senza motivo e senza avere niente in cambio a una delle poche opportunità a sostegno della managerialità al femminile. Non si può pensare di risolvere il divario uomo-donna con la meritocrazia, che prima dell’introduzione della misura cogente non ha prodotto risultati. Prima della legge Golfo-Mosca la percentuale delle donne nei consigli era il 6%, questo dimostra che l’unico modo di accelerare il processo era introdurre un obbligo tramite un intervento legislativo. È vero che Borsa Italiana ha adesso inserito una previsione specifica nel proprio regolamento, ma prevede un meccanismo che si basa sul principio complain or explain che è sicuramente uno strumento utile, ma meno forte rispetto a una legge.
Ma è giusto prorogare la Golfo-Mosca così com’è o sarebbe più opportuno inserire delle nuove previsioni?
La proposta di una proroga è stata, a mio avviso, una scelta utilitaristica, perché l’approvazione è più semplice. Delle nuove previsioni avrebbero dovuto essere discusse e quindi si è scelto di percorrere la strada con più chance di ottenere un risultato. Certo, si poteva proporre di aumentare la quota…perché il 30% e non il 50%? La popolazione femminile italiana è al 51%, perché il criterio non dovrebbe essere proporzionale? Anche allargare l’ambito di applicabilità alle non quotate – magari oltre una certa soglia di fatturato o di numero di dipendenti – sarebbe proponibile ed auspicabile ma è molto difficile, bisognerebbe cambiare la cultura del Paese visto che il nostro tessuto industriale e fatto da piccole medie e imprese. Un provvedimento del genere potrebbe essere interpretato come una limitazione alla libertà dell’imprenditore.
Al di là dei cda, le donne ai vertici sono pochissime. Potrebbe servire un provvedimento che punti a migliorare anche la leadership aziendale come è avvenuto per la Golfo-Mosca nei consigli?
È la grande scommessa persa della legge Golfo-Mosca. La vera speranza era che le donne, entrando nei cda fungessero da facilitatrici dell’ingresso di talenti femminili all’interno dell’organizzazione e contribuissero ad aumentare il numero di donne all’interno delle aziende a tutti i livelli ma soprattutto in quelli apicali.
Ma non è successo…
Noi donne dovremmo farci un esame di coscienza e chiederci perché quelle di noi che si sono sedute nei cda non sono riuscite a favorire il cambiamento, pur trovandosi nella stanza dei bottoni. Queste donne hanno perso l’interesse? Non sono state capaci? Oppure le strutture delle aziende sono così radicate che non si riesce a modificarle più di tanto? Correggerle con un provvedimento legislativo che va a toccare la libertà di impresa è difficile, ma io sarei favorevole a delle quote anche in questo senso. Le donne sono fortemente discriminate, si pensi anche solo al dato sull’occupazione femminile fermo al 49% da circa dieci anni. Tutto quello che si può fare per cambiare queste situazioni di discriminazione è sicuramente positivo perché le discriminazioni devono essere eliminate dovunque esse siano.
Un altro punto su cui il divario è molto forte sono le retribuzioni. Cosa si potrebbe fare per questo?
Basterebbe introdurre un provvedimento come quello inglese che chiede alle aziende trasparenza nei dati (“Equality Act 2010 (Gender Pay Gap Information Regulations 2017”). In base a questa normativa le aziende del Paese con più di 250 dipendenti sono obbligate a pubblicare annualmente, sul proprio sito internet e su quello dedicato del governo, una serie di informazioni sulle differenze di retribuzione tra uomini e donne, ndr). Si tratta di un obbligo di trasparenza e funziona perfettamente per far emergere le discriminazioni. A quel punto diventa molto difficile giustificarne la mancata correzione…