La fertilità non è un bene comune
Quando uscirà questa rubrica sarà ormai diminuito l’eco delle polemiche provocate dalla campagna per il Fertility day: la giornata indetta dal ministero della Salute, il prossimo 22 settembre, per parlare di fertilità. Eppure sul tema dell’infertilità (ed è questo forse il primo errore della campagna stampa: parlare di fertilità e non di infertilità) rimane ancora molto da dire.
Secondo i dati dell’ultima indagine Censis, questo problema riguarderebbe infatti un numero compreso tra il 20 e il 30% delle coppie italiane. Coppie alle quali, ahimè, non bastano di certo gli inviti nazionalisti e un po’ offensivi del ministero condensati negli slogan: “Datti una mossa, non aspettare la cicogna” o “La fertilità è un bene comune”.
Posticipare la decisione di diventare genitori (e non solo madri, altro errore della campagna), com’è noto, è il primo fattore di infertilità. Eppure il ministero finge di ignorare le ragioni di questo rinviare che sono principalmente tre: l’assenza di lavoro e di reddito, di welfare e anche di parità di genere.
«Nessuna tra le mie amiche non ha figli perché immatura. Non li hanno perché non hanno soldi», ha twittato una cittadina arrabbiata dopo la pubblicazione della campagna del ministero. E infatti, come hanno scritto alcune economiste nei giorni scorsi, per incentivare la natalità servirebbero politiche che sostengano l’occupazione delle madri che invece oggi nel 25% dei casi lasciano o perdono il lavoro dopo la gravidanza. Ma anche investimenti per la prima infanzia e politiche che favoriscano in maniera più decisa i congedi dei padri.
Ma quante sono le società italiane che hanno un’asilo nido aziendale? Quante quelle che forniscono servizi di assistenza alle donne in gravidanza? E, infine, quante quelle che continuano a discriminare le donne, soprattutto quando durante un colloquio di lavoro ammettono di volere figli?
La risposta a queste domande me l’hanno data le molte giuriste d’impresa che incontro ogni giorno: poche. Anzi pochissime. C’è chi ha ammesso di aver barato al colloquio di assunzione «perché altrimenti il capo avrebbe storto il naso»; e anche chi mi ha raccontato il dolore dell’«ormai è troppo tardi». Personalmente penso che sia da storie come queste – e non da clessidre che scandiscono il tempo inesorabili o da messaggi stereotipati – che bisognerebbe partire per parlare davvero di infertilità e di genitorialità.